L’arte di vendere i libri (dettagli)
Titolo: L’arte di vendere i libri
Autore: G.G. Napolitano
Data: 1933-05-31
Identificatore: 1933_268
Testo:
DOPO LA FESTA DEL LIBRO A TORINO
L’arte di vendere i libri
Come non si devono vendere; come si vendono - Carattere dei torinesi e considerazioni sulle firme degli scrittori, con un finale sentimentale
Mi trovavo ad esser fresco dell'esperienza della Festa del Libro di Milano, in piazza dei Mercanti; una festa ben riuscita, dove i libri venduti furono molti, e di tutti i generi, compresi quelli chiusi in una scatola di cartone e con tutt'intorno un vago sapore di afrodisiaco. Ma anche una festa, quella milanese, in cui i difetti e le esuberanze, tante volte denunziati gli anni precedenti, persistevano più o meno attenuati. I collaboratori di giornali del tipo della Farfalla d’Amore avevano trionfato; le riviste di ricamo e di lavori femminili avevano venduto migliaia e migliaia di cestini di carta con dentro vecchi numeri arretrati della raffinata pubblicazione, dentifrici, creme per la faccia, biglietti di lotterie; le bancarelle dei libri usati svendevano rapidamente i fondi delle Case editrici andate in malora a prezzi da liquidazione di scampoli fine stagione.
A Torino le cose sono cambiate; e che l’aria, il pubblico, l'organizzazione e tutto il resto fossero differenti si poteva vedere sin dal principio. Potrei anche scrivere che il pubblico di Torino si è buttato all'arrembaggio dei libri alle dieci in punto di giovedì, e che ha cessato il suo assalto alla mezzanotte della domenica. Scriverei una bugia. È stato tutto diverso, lasciatemelo dire. Dapprincipio le vendite ebbero un corso regolare, quello di tutti gli anni. Il pubblico torinese è diverso dagli altri, per un suo carattere di riserbo e di attesa iniziale, per una certa tendenza allo stare a vedere come le cose si mettono. Specialmente le donne, e voglio dire le signorine, venivano e tornavano un paio di volte al giorno. Già m’ero abituato a distinguere fra la folla quel tale cappelluccio verde, quel talaltro feltrino avana, quella paglia bianca inclinata in quel dato modo; e quegli occhi, naturalmente, e quel sorriso. Mi sbaglierò, ma, benché un po' di rumore in Italia non guasti mai, il pubblico a Torino s’affollava maggiormente intorno a quei banchi in cui non veniva apostrofato perentoriamente, da cui non gli si movevano ordini nè suggerimenti minatori. Naturalmente la maggior affluenza e la più viva curiosità si sono avute intorno al padiglione del nostro giornale, e questo per delle ragioni abbastanza significative. Certamente Milanesi anche qui a Torino non ha avuto requie. Questo vale anche per Salvator Gotta, di cui Torino è sempre stata la roccaforte. Più in là c’era il banco di Luigi Chiarelli che ha avuto la sua parte di successo. Civinini, che era il Premio più ragguardevole della Festa, ha avuto il suo daffare, e il generale della Milizia, con la sua lunga faccia, arida come la pietra pomice, illuminata come quella di un bambino, dedicava copie su copie di Pantaloni lunghi. Nè è a dire quel che accadde intorno al banco di Marcella Albani; la bellissima attrice cambiava d'abito quattro o cinque volte al giorno e riempiva la prima pagina dei suoi romanzi di una scrittura larga, lunga, e rossa come un bastoncino di minio per le labbra; invece si trattava di una matita che veniva adoperata. Toddi era il più bel numero del chiosco di Ceschina, a non contare Leonida Rèpaci che, alternandosi fra il banco del suo editore e quello del nostro giornale, vendeva i suoi enormi libri con una tale rapidità, con un così allegro sorriso, con un così biondo muovere della testa, con un così azzurro occhieggiare che si trovò ad essere in breve tempo uno dei beniamini del pubblico.
E Annie Vivanti? E Paola Masino? La bella Paola arrivava alla Fiera tutta assonnacchiata verso l'una; ma le bastava quell’apparizione per radunare intorno a sè i più eleganti giovanotti di Torino.
Ma il fatto nuovo, e al quale si deve in definitiva l'esito davvero strepitoso della Fiera, era costituito dall’intervento compatto degli scrittori del nostro giornale. C'è un solo rammarico. Ed è che le consegne del nostro mestiere abbiano tenuto Solari a Berlino e Monelli in America. Altre necessità e circostanze hanno impedito la venuta a Torino di S. E. Marinetti, di Ardengo Soffici, di Bruno Barilli, di Nino Savarese, di Ugo Betti, di Silvio d'Amico, di Nicola Moscardelli, di Francesco Chiesa, di Alberto Cecchi, di Giuseppe Ungaretti, di Mario Massa, di Fabio Tombari e di Marcello Gallian. Tutti gli altri c'erano. Adriano Grande, deposto l’abituale riserbo, s’è rivelato anche uno straordinario imbonitore. Ma le dediche più lunghe di tutta la Fiera le ha vergate il poeta Giuseppe Villaroel, dediche in cui si facevano discrete allusioni agli occhi ai capelli al sorriso delle compratrici, che tornavano il giorno dopo strascinandosi dietro amiche riluttanti e affamate di complimenti.
La giovane Casa editrice Delfo, per tutta pubblicità, aveva inalberato un grosso cartello con sopra i risultati del « referendum » del Diorama per i dieci migliori libri dell'anno X, nel quale il romanzo di Amedeo Ugolini, stampato appunto dalla Delfo, figurava al secondo posto. I commessi vendevano il nuovo romanzo dell'Ugolini servendosi cóme principale argomento, a favore di questo scrittore pressochè ignorato dalla critica, dei risultati del « referendum ». A un certo punto persino Ermanno Amicucci, che girellava, incognito, per la piazza, s’è visto offerto il romanzo. A riprova della sua bontà il commesso citava con insistenza la Gazzetta del Popolo.
Sta di fatto che intorno al banco del giornale la folla era enorme, e niente valeva a distoglierla. Niente, neppure l'arrivo di Brocchi. Cipolla continuava a firmare libri a centinaia. Gli imbonitori della Libreria Centrale lo annunziavano come « il celebre esploratore! ». A corto d’argomenti al sottoscritto toccava la qualifica di « giovane esploratore ». Come chi dicesse: boy-scout!
Mi ricordo l'ultima mattina, domenica. Valeri, Frattini, Barisoni, Viscardini erano partiti. Partito anche Zavattini. Partito Ettore Romagnoli. Rimanevano sulla breccia Ridenti, elegante come un'illustrazione di Adam; Folgore, che dedicava in versi estemporanei, alla maniera dei poeti pastori; Salvaneschi, calmo, insensibile alla fatica. Ma il più imperturbabile e sorridente venditore di libri è stato Massimo Bontempelli. L'Eccellenza nostra fumava e firmava. Alle dieci della mattina non si trovava più una copia della Famiglia del fabbro; alle dieci e mezzo del Figlio di due madri; alle undici di Eva ultima; a mezzogiorno del Neosofista. Furono esauriti nella serata Minnie la candida, e si. dovette attaccare ben presto i Sette savi che non ebbero sorte diversa.
Verso la stessa ora Sobrero aveva esaurito Roma, e dedicava le copie ormai introvabili di Pietro e Paolo. Notari aveva fatto un’ apparizione. Rimanevano Guido da Verona e Campanile. La generazione dell'età di mezzo si riversò in massa, a colonne compatte, agitando vecchie copie di Mimi Bluette, avida di autografi. Campanile dette la sua ultima battaglia in smoching. Era l'unico degù autori in sparato da sera, e questo lo rendeva più magro. Esaurita la Cantilena. Esaurito Battista. Si ricominciarono a firmare le copie di Ma che cosa è? In un angolo del chiosco, Mura, ospite del giornale, teneva testa alla letteratura maschile. Mura andava ria a chili; 25 libri: 25 opere. Campanile si vide costretto a plagiarsi: « Ma che cosa è questa Mura? ».
L'ultimo libro, alla Festa, fu venduto in questo modo. Potevano essere le dodici e mezzo della sera di domenica, L’ ultimo capannello di gente s'attardava davanti al banco della Gazzetta del Popolo, di dove gli scrittori sgattaiolavano alla spicciolata salutati dai commessi della libreria Gissi con degli avanzi di voce. Ormai anche Guido da Verona era svanito nell’ombra del porticato con la sua giacca verde, il suo enorme cane velloso e baffuto come un tricheco, ravviandosi i capelli con un pettinino di tartaruga. Anche Lorenzo Gigli era andato via riaggiustandosi la caramella nell’orbita, in punto alla firma sulla centesima copia della sua Vita di Gobineau; le voci degli scrittori, nella notte, prendevano finalmente un tono privato e familiare. I tre giovanotti della Gazzetta del Popolo, Patti, Campanile e Napolitano, salutavano alla voce Arnaldo Cipolla che era pervenuto in quel momento ad incastrarsi in una minuscola e rilucente automobile; una delle sue giovani figliole manovrando giù il freno con la manina inguantata di bianco. Fu a questo punto che una graziosa signorina, tutta trafelata, il cappelluccio di traverso, una stilografica nella destra e un libro dalla copertina viola pallido nella sinistra, irruppe nel porticato gridando: « Signor Patti, signor Patti! ». Poco dopo l'ultima copia di Due mesi di vita di un giovanotto viaggiava verso un quartiere della periferia a bordo di un tram.
Piazza Lagrange rimase sola. L'illustre signor Lagrange con i suoi libri di bronzo sotto il braccio del gabbano non s'ebbe altra umana compagnia che quella di un vigile e di alcuni ragazzi che cominciarono a gavazzare nei mucchi di manifestini pubblicitari che formavano sul pavimento strali più compatti ed effimeri delle foglie morte nei viali delle vecchie ville in autunno. Ogni cosa, entrò nel silenzio. Un silenzio improvviso, pesante e corposo che sembrava dovesse venire guastato da un momento all'altro dalla tremenda voce dell’altoparlante, e la notte traversata dal triplice grido: « Viscardini! Viscardini! Viscardini! ». Invece era il silenzio: un silenzio incredibile, tanto l'etere più nascosto s’indovinava pieno di risucchi come una conchiglia.
G. G. Napolitano.
Collezione: Diorama 31.05.33
Etichette: G. G. Napolitano
Citazione: G.G. Napolitano, “L’arte di vendere i libri,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1078.