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Titolo: Il paladino

Autore: Adriano Grego

Data: 1933-06-14

Identificatore: 1933_279

Testo: Il paladino
Si udì per la strada un gran vociare confuso. Grida, uomini che correvano, imposte sbattute violentemente. Poi, subito dopo, un silenzio magico. Si videro facce curiose e inquiete, qualche passante che chiedeva ai bottegai assorti notizia del fatto, un’automobile ferma. Una madre vicina a me stringeva il braccio del suo bambino e aveva l’aria angosciata come se si fosse stati in attesa d’un terremoto.
All'angolo della strada, poi, c’era l’assembramento; e tutti correvano da quella parte e perfino un venditore ambulante aveva lasciato il suo carretto carico di tazze e di piatti per andare a infilarsi in quel groviglio umano. Anch'io lo imitai. C’era nell’aria un odore di disgrazia ch’era difficile sentire senza curiosità e poi anch’io, come tutti, amavo le sorprese della strada e provavo piacere nel frugare fra la gente il viso d’una vittima.
Qui la vittima era davvero pietosa. Balbettava, tremava, scuoteva il capo con aria dinoccolata, come se sul còllo avesse avuto un gran peso e avesse cercato di liberarsene. Era scuro di capelli e di carnagione: una gran zazzera nera, un paio di sopracciglia foltissime, un viso squadrato, con zigomi e mascelle sporgenti, sicchè l’avresti detto piuttosto uomo nato per far la voce grossa, che non facile a bramiti. Così il vedere quel corpaccio sodo, quella maschera di uomo forte, destituiti d’ogni energia, era pietoso per tutti. Pregava e si dibatteva. Si rivolgeva a destra, a sinistra, con aria disperata e certo tutta la sua disperazione si aggrappava in quel momento alla gente che gli era d’intorno. E cercava sulle facce dei presenti qualche segno d’assenso, qualche moto di comprensione. E poi, subito, si rivolgeva a un altro e poi a un altro ancora.
Ma il suo accusatore era implacabile.
— Sulla testa dei miei figli, lo giuro. Mi ha dato un urtone proprio qui, proprio qui, e poi è sceso dal tram in corsa. Trecento lire c’erano nel portafoglio e tutte le carte...
Era un grasso uomo dalla faccia volgare con due piccoli occhi semichiusi che pareva non avessero più posto fra tante fette di carne trionfante. Aveva un collo flaccido enorme e due mani rigonfie che battevano l’aria. Poi, una voce blesa, cattiva, strozzata dall’epidermide, dalla fatica e dall’ira. — Sulla testa dei miei figli... — gridava e faceva un segno a metà del suo ventre facendo capire che i suoi figli eran bimbi.
Intanto s’era fatto largo un vigile urbano, severo ed impacciato.
— Che c’è?
Come tutti parlavano insieme, cercando di coprire le voci degli altri, l’uomo, senza ragione, come avesse dovuto sciogliere un assembramento, gridò:
— Largo!
Poi si rivolse al ladro e gli disse: « Faccia vedere le sue carte ».
Allora, tutti ammutolirono. Il ladro incominciò a frugarsi nelle tasche della giacca e dei calzoni e poi tirò fuori un foglio di carta spiegazzata e lo mostrò. Era un congedo militare.
Il vigile lo spiegò, lo lesse attentamente, lo ripiegò e poi lo tese all’uomo:
— Ho capito — disse. E rimase perplesso, crucciato, come se non avesse più saputo che cosa dire.
Il grassone tornò alla carica:
— Avevo trecento lire nel portafoglio... Mi ha dato un urtone e poi è sceso dal tram in corsa. È proprio lui.
— Ma io non l’ho il portafoglio — pigolò il ladro e incominciò a rovesciarsi le tasche e a mostrarle a tutti.
— Lo so io perché. Perché l’hai dato a un compare appena sei sceso. Ho visto benissimo io.
— E dov’è?
— Dov’è? Dov’è? — chiesero i più vicini. « Era uno coi baffi. Era uno senza cappello. Ma no, quello era uno sull’automobile che è sceso. È entrato dal tabaccaio. Se l'ha visto doveva fermarlo subito. Bisogna andare in Questura. Qui nessuno ci capisce niente ».
In quel momento una voce chiara e gagliarda si udì in mezzo alla gente:
— Non si devono commettere ingiustizie.
Fosse la virtù di quella frase, fosse il tono con cui era stata pronunciata, certo è che si fece silenzio all’improvviso. E un vecchio signore, alto ed asciutto, si trovò in primo piano a parlare:
— Io ho visto benissimo la scena — dichiarò — e non permetto che si compiano ingiustizie in mia presenza.
« Bene! Lasciatelo parlare! Se ha vista, che parli lui. Anche il vigile è venuto dopo. Giusto! Ingiustizie non se ne devono fare. Quello che parla è un magistrato. No, è uno della polizia. Lasciatelo parlare ».
— E io le dico, caro signore, che lei non ha visto niente. Trecento lire c'erano dentro e chi mi ha dato l’urtone...
Allora il vecchio signore lo interruppe con autorità:
— Basta. Ero io sul tram e ho visto benissimo la scena. Questo giovane era lontano da lei almeno due metri, e poi è inutile fare tante chiacchiere. Il portafoglio dov’è? Lei crede che i ladri prendano il danaro per darlo in beneficenza?
Qualcuno rise. « Ben detto. Ha ragione. Dov'è il portafoglio? ».
— L’ha dato a un compare che lo aspettava sul marciapiede — obiettò sbuffando il grassone.
— Ma mi faccia il piacere! Lei ha la fantasia che le balla il minuetto nella testa.
Tutti scoppiarono a ridere e allora il grassone si riattaccò al vigile per avere giustizia.
— Io ho diritto di riavere i miei danari. Ci son troppi ladri per la strada. E poi io sono un buon padre di famiglia. I danari me li guadagno, me li sudo, io. Con queste mani, eccole qua.
— Bella ragione per accusare un innocente — intervenne ancora il signore. — Il portafoglio non c’è. Nessuno ha vista niente.
— Ecco, guardate. Non c’è proprio — incalzò il ladro vuotando ancora una volta le tasche.
Ora l’assembramento era diventato più folto e la gente più lontana vociava per chiedere notizie, sbinoccolava cogli occhi in quel groviglio. I nuovi arrivati facevano domande balorde, e parlavano di feriti. « Ma no, non ci sono feriti. C’è un ladro. Lo hanno arrestato. È scappato. No, è là in mezzo. Questi tram sono fatti apposta per i ladri. Ci vorrebbe una guardia in ogni tram ».
Di lontano, qualcuno incominciò a gridare: « Portatelo in questura ».
Allora la frase venne ripetuta a destra, a sinistra, con insistenza sempre maggiore. Anche i più vicini, che parevano sospinti da quella voce, ripetevano: « In questura ».
— Macché in questura. Non si devono fare ingiustizie — disse ancora il vecchio signore.
Ma la sua voce, questa volta, venne coperta, travolta.
« Andiamo. Andiamo ».
Anche il vigile proclamò che bisognava andare in questura. E si sbracciò, autoritario, spingendo avanti il ladro. Questi non si ribellava, ma procedeva a piccoli passi come un bimbo sonnacchioso e si voltava indietro.
Il vigile disse al vecchio signore:
— Venga anche lei. Come teste.
E allora il gruppo s’incamminò.
* * *
Pochi minuti dopo, proprio alla svolta della strada, vidi il vecchio che sgusciava dalla folla e se n’andava col bavero alzato.
Non so come avesse fatto a liberarsi da quel corteo. So soltanto che se n’andava e s’infilava i guanti.
Chissà. Forse aveva pensato che le aule della questura sono tristi e i muri trasudano grasso. Ingiustizie non se ne devono fare; d’accordo. Ma un galantuomo, quando per un quarto d’ora s’è affannato a fare il paladino dei deboli, ha pur diritto di stancarsi. E poi, chi gli diceva che il ladro non fosse un ladro davvero?
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 14.06.33

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Citazione: Adriano Grego, “Il paladino,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1089.