Fiore della lirica italiana (dettagli)
Titolo: Fiore della lirica italiana
Autore: Massimo Bontempelli
Data: 1933-06-28
Identificatore: 1933_297
Testo:
Fiore
della lirica italiana
Due giovani pieni di coraggio si sono buttati in una impresa disperata, e sono eroicamente caduti. Concediamo l’onore delle armi.
I due giovani sono Enrico Falqui e Aldo Capasso. Hanno voluto compilare un cànone della lirica italiana, una antologia insomma, che trecentescamente e carduccianamente si intitola Il fiore della lirica italiana dalle origini a oggi (editore Giuseppe Carabba, Lanciano).
Carducci aveva messo insieme il suo Primavera e fiore della lirica italiana con il criterio misto ch’era possibile allora (1903): voglio dire commisto di gusto acquisito, di rispetto storico e culturale anzi erudito, e perfino di ardore politico. La sua antologia si chiude su Mercantini e Mameli; la prefazione finisce con le parole: « Leviamoci in piedi: è il quarantotto ».
Tra l’antologista Carducci e l’antologista Falquicapasso, c’è stato in mezzo Croce e la famosa rieducazione, poi ancora un ampio sforzo per riprendere ampiezza di respiro. Falqui e Capasso si dichiarano « dall’altra parte di Croce ». Ma Croce li ha dominati e travolti. Il « lirismo » che per Croce coincide con la poesia, per i nostri diventa « lirica in senso stretto »; e per questa equivoca limitazione si pensano essi di avere, in qualche modo, ripristinato contro Croce l’idea dei « generi ».
Ma come in Croce il principio del lirismo, inconfutabile in sede estetica, diventa un impaccio tremendo in sede di poetica e porta lui a non intendere la compattezza lirica della Commedia, — così nei nostri la fantasima di una « lirica in senso stretto » diventa uno spauracchio che li spinge a disordinate fughe, cioè a mutilazioni e, incomprensioni d’ogni sorta.
Arrivano a pigliare la Commedia (ci tenevano a far vedere che il ripristinamento dell’idea di generi non intendeva il genere come « componimento », ma allora perché non avere tutto il coraggio e fare come Papini nei Poeti d’oggi del ’19, e mettere dei pezzi di Malavoglia, di Promessi Sposi, delle Operette, opere scritte in « prosa »? ), arrivano a pigliare la Commedia, l’Innamorato, il Furioso, anche la Gerusalemme (prevedo che sta per scoppiare tra i nostri perdigiorni litterati una nuova polemica tassoariostea sul gusto di quelle del Cinque e Seicento, con lo stesso risultato: il gusto di queste fesserie sta girando) e tentare da queste costruzioni far saltar via netti i passi di « lirica in senso stretto ». Il lettore che non possiede ancora il Fiore sarà curiosissimo di sapere quali sono i ritagli « lirici in senso stretto » della Commedia. Sono gli episodi di Francesca, di Ulisse, del canto delle anime purganti al tramonto, del sogno di Lia, del Paradiso Terrestre, dell’apparizione di Beatrice, di Piccarda, di Costanza e del Trionfo di Cristo.
O perché questi e non tanti altri? Ma la domanda stupefatta non è questa. Lo stupore nasce dal fatto che i compilatori, volendo per forza nella compattezza della Commedia segnare e isolare i momenti lirici in senso stretto, han confuso il fiorire del lirismo con l’episodio. Errore primo, non capire che il fiorire lirico è tutt’una unità con le sue preparazioni e le sue conseguenze, la sua atmosfera; errore secondo, non capire che l’isolamento dell’episodio, come lo fan loro, nasce in parte dal materiale narrativo, non dal raggiungimento del « lirico in senso stretto ». Se davvero si potesse attuare questo isolamento, la « lirica in senso stretto » non avrebbe a consistere in « episodi » narrativi o descrittivi, ma nel segnalare certi trasalimenti improvvisi, di un verso, di due parole, di una immagine: una terzina come quella di Trivia o quella del tremolar della marina, un accenno come il lago del cor e cento altri. Insomma, l’errore frammentistico del 1919, cui han preferito l’errore desanctisiano dell’episodico.
Un’altra preoccupazione che talvolta porta a una vera ruina, è la sollecitudine antistorica. Voglio dire: talora, specie in tempi d’arte primitiva, hanno luogo vere e proprie collaborazioni, le quali si vede poi che preparavano un’atmosfera; ma già tutto il loro periodo, tutto il loro ambiente, emana nel suo assieme una somma di espressione poetica, che va irrimediabilmente perduta se vogliamo metterci a fare il segno isolante o addirittura il taglio di forbice intorno a ciò che è compiuto raggiungimento poetico, buttando via ciò che è trapasso, aspettazione, annuncio. In questa antologia il dolce stil novo non si sente. Non c’è che Cavalcanti, non c’è nemmeno Guinizelli; mentre ce ne volevano parecchi, anche quelli che ne ripetono altri, anche se si ripetono, perché con tali ritornelli in comune si viene creando all’insieme di un periodo una specie di struttura strofica che ne genera il fascino e ne determina l’importanza.
Similmente non c’è qui nemmeno un canto carnascialesco, neppure il Trionfo di Bacco e Arianna. C’è una poesia di Lorenzo, una di quelle in cui lui è meno Lorenzo, e basta. Ce n’è tre del Poliziano. E non c’è il senso di tutta quella produzione di strambotti, rispetti, ballate, trionfi; produzione cortigiano-popolaresca che fu, dopo il dolce stil novo, l’altro esempio fascinosissimo di poesia nata dalla collaborazione di tutto un ambiente: fu un nuovo primitivismo che riportò a primavera la nostra lirica dopo la matura estate del Petrarca.
Se i compilatori mi opponessero, che con osservazioni di questo genere entro in una considerazione di ordine culturale che non ha niente a che vedere con il loro proposito di ricercare la lirica in stretto senso, risponderei che allora non c’era nessuna ragione di dividere il libro a secoli, di mettere gli autori in ordine cronologico, di tentare che non rimangano vuoti: tentativo che li ha trascinati a salvare molte poesie brutte.
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Questi appunti che mi sono permesso di portare innanzi, non vogliono menomare i meriti della fatica di Falqui e Capasso; hanno il solo scopo di mettere in dubbio, non già la capacità loro a compiere l’impresa, ma la possibilità stessa di imprese di questo genere.
Non è dunque un contrasto di gusti che io presento loro, ma una incredulità iniziale e d’indole teoretica. Se dovessi contrapporre gusto personale a gusto personale, segnalerei il mio disappunto nel riconoscere che la tendenza dei due viaggiatori rifugge dai terreni vergini e primordiali, e si compiace addentrarsi e indugiarsi nelle zone più coltivate, ripulite, forbiciate a giardinetti piacevoli: il Cinque e il Seicento; loto fanno gran caso d’aver ripescato un insignificante sonetto d’un certo Muzzarelli. Le tre poesie del Campanella sono ben lungi dal rivelare la terribilità lirica di lui. Ignorano certe liriche strane ed elementari del Caos del Triperuno di Folengo, che si mangiano nove decimi delle liriche del Cinque e Seicento qui presenti. Mi piace la loro antipatia al Parini ma Il Messaggio (pur con due o tre spegnitoi realistici o classicisti) ci voleva: è quasi unica nella storia troppo morbida della poesia amorosa italiana: la sensualità senile presentata non come stanca nostalgia o come ipocrita ravvedimento, ma come potentissima evocatrice di fantasmi che si fanno sangue e carne; e la poesia realizzata nel suo ufficio di « contemplazione di una immagine creata »; poi quell’ampliamento, quell’allontanamento misterioso dei toni, la malinconia magica infinita del finale. Altro che Muzzarelli.
E troviamo qui il Cinque Maggio, la poesia più nauseabonda di tutta la letteratura italiana (in diciotto strofe, non c’è di buono, forse sublime, che l'avviamento della terz'ultima, ma cede subito). Ah, in un libro come questo, c’è il Cinque Maggio e non c’è il Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia. Non vorrei che un lettore, a questa duplice notizia, andasse a prendere a coltellate Enrico Falqui e Aldo Capasso. Lui sarebbe assolto; ma tutt’insieme sarebbe un peccato, perché sonò due bravi giovani e non lo faranno più.
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Il secolo decimonono si chiude con poesie di D’Annunzio, il ventesimo si apre con alcune risciacquature dannunziane. Manca Palazzeschi, ed è una grossa villania. L’ultimo è Ungaretti.
Ungaretti da qualche tempo mi piace. C’è nella sua parola un colore di perla, un senso d’estasi e d’etereo, che lo ravvicinano, saltando sopra sette secoli, al diafano e al gusto d’estasi del dolce stil novo. Ma la maniera di Ungaretti nasce da rinunzie eroiche, egli rifiuta alla bellezza dei suoi accordi ogni sostegno e illuminazione di atmosfera. Questo è fuori, forse più su, della forma umana della gioia (e ogni illuminazione di poesia è un aspetto di gioia). La gioia umana è tutto un fluire di attesa verso un acquetamento. Ungaretti rifiuta l’attesa: questo chiamo il suo superbo eroismo. Egli non concede vita che ai risultamenti supremi. Le sue rivelazioni non sono in funzione del tempo. Tende a rappresentare l’attimo in cui si concentri un’energia in sé compiuta e perfetta. Il suo spazio è un non misurabile punto. Ungaretti ha orrore della dimensione. Raggiunge immobilità, che sono concentrazioni d’una convulsione. Di qui nasce il senso di inesorabile, che è la sua scoperta e il suo raggiungimento più sorprendente. Anche le sue poesie più svolte sono una serie di note delle quali ciascuna crea un’immobilità.
Tutta la lirica anteriore, dal dolce stil novo a Pascoli, ha sempre in ogni componimento poetico presentata tutta una situazione con i suoi particolari, e l’anelare e sublimarsi di questi particolari in un lampo di rivelazione. Anche le poesie più pure, anche la più pura di tutte, L’Infinito, denunciano gli elementi della situazione prima di rivelarne il portato supremo.
Ungaretti non lascia alcun lembo di situazione per cui la poesia possa essere afferrata di sbieco. Questo chiamavo situazione eroica. Come tutti gli eroismi, anche questa sua situazione è a un filo dalla morte. Il pericolo di Ungaretti è la sterilizzazione.
Forse i due libri che Ungaretti ci ha dati finora (Allegria e Sentimento del tempo) non sono che il primo tempo dell’opera sua. Essi chiudono la storia della lirica italiana che comincia con lo spunto del Guinizelli al cor gentil ripara sempre Amore. La nuova poesia non può cominciare che con la creazione dei nuovi miti. Cioè, è necessario alla nuova poesia tornar fuori dalla « lirica in senso stretto ».
Massimo Bontempelli.
Collezione: Diorama 28.06.33
Etichette: Massimo Bontempelli
Citazione: Massimo Bontempelli, “Fiore della lirica italiana,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1107.