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Titolo: Vetrina

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1933-08-02

Identificatore: 1933_341

Testo: Vetrina
Ci sono delle botteghe dove qualunque oggetto acquisti vien tolto dalla vetrina. Ci sono degli uomini come quelle botteghe.
Mi capita d’usurpare dei titoli che non mi competono ed ai quali non potrei tenere: che so, il titolo di avvocato. Ciò mi irrita contro di me. Mi chiedo perché l’ho fatto. Non so capacitarmi.
Ma se considero con chi parlavo m’accorgo che istintivamente traducevo. A questo modo nella Volgata del Vangelo l’Agnello di Dio diventa per l’esquimese — mi dicono — una foca.
Apologo
Il collega del quale ignoro il nome e che butta avanti camminando il piede storpio, quando cominciai a zoppicare mi manifestò una simpatia calorosa quanto improvvisa. La quale scemò col mio zoppicare; per sparire del tutto quando ripresi la retta andatura. Non devo aver corrisposto alla sua aspettativa.
Leggo il libro molto lodato, che trovo davvero interessante, scritto con forza, eccetera. Ma l’asino che morde vicino a me la sua razione di gramigna, trattenuto per la cavezza al muro, continuamente mi distrae.
Nicotera
Il treno carico di sonno, ovattato, che si instrada da sé, tutta notte ha scalpitato nel buio per trarsene fuori: spazientito agli scambi, vegliato da dischi rossi.
Sbucato in quest’alba, di colpo, senza scossa, v’è fermo: non sfriggola neppur più, rattiene anche il fiato, preso da incanto.
Ha approdato a un mondo intatto. Una natura macignosa ed arcigna si barrica quassù di marruche; come di groppi di serpi che impugni, pronta a scagliarli, divincola di euforbie: occhiute di ventose, gonfie d’un latte che morde.
Protegge una nascita.
Là un mare giovane tocca con stupore una spiaggia: discosto vagheggia un mazzo di tetti rorido, un borgo neonato.
Su tutto è sospeso un primordiale silenzio. L’aria punge di brina e d’aromi. Il sole la prima volta vi leva.
Del macigno e del silenzio il treno comincia a partecipare. In una immobilità di casa fa presa con la scarpata, mette fondamenta.
Portofino
Portofino è in questa piazzetta acciottolata. Chi vive qui, almeno una volta al giorno deve comparirvi. Le case che le fanno ala, colorate in sordina, si svolgono senza scontinuità come degli scenari. Una s’appoggia all’altra; per incuorarsi; come i ciechi di Dante ai « perdoni » delle chiese. Portichetti ricoverano le botteghe nei giorni di pioggia.
L’incanto di quest’angolo è che il treno non lo tocca. Basta questo alla nostra sedentarietà per sentirci fuori del mondo. Giungendo qui, si fiata. È come se, anche momentaneo, avessimo ottenuto un congedo dall'esistenza. Giubilati. Leggeri come ragazzi che, in luogo della scuola, abbiano marinato la vita.
Chi capita qui è in vacanza. Il tempo che vi passa ha gusto di tempo frodato. Il condannato dalla civiltà all’impiccagione del colletto duro, non contento di scamiciarsi, si scalza. La contessa svedese viene a scambiarvi il castello con una stanzetta imbiancata per gemervi tra le braccia del soggettista di film americano. L'astemio vi beve l’acquavite in bicchieri comuni. L’uomo-cervello (ricordate i Marziani di Wells che sostengono il capo come insetti un mappamondo? ) si muta in pianta su questi scogli.
In quante esistenze Portofino resta, in un’atmosfera di sogno, a rappresentare l’unica scappata, la parentesi improvvisa apertasi nelle consuetudini: necessaria alla vita quanto la finestra alla stanza.
Di questa primordiale bellezza gli indigeni non hanno sospetto: per averla sottocchio dalla nascita, non la vedono: e pensano a una fìsima di gente ricca, di cui bisogna trar profitto finché dura.
Già su questa piazzetta quante « pensioni » tendono la ragna di tavole apparecchiate e si disputano il forestiero a lettere di scatola! Che lotta sotterranea per accaparrarsi il pesce migliore, per assicurarsi tutto l’inverno l’esclusività delle fragole da servire con la panna! Bisogna aver rotto a fondo coi vicini per mettere tanto grande la scritta: « La pensione Mogadiscio non ha sale a pianterreno ».
Astii inevitabili in così poco spazio, tanto più profondi in quanto non scoppiano in piazza, e dai padri tramandati ai figli col cognome.
Donne all'osteria
È certo a patto di restar lì, addossate al banco, e cioè con un piede, si può dire, fuori della porta che, di quelle due donne, la contegnosa ha acconsentito a sedere all’osteria. A questo modo anche la disposizione dei bicchieri — alle loro spalle, sullo zinco — la compromette meno.
Si riguarda dentro uno scialletto a maglia e tiene in grembo compostamente le mani, come fosse in visita. È la prima volta si direbbe che scade a bere alla bettola senza il pretesto di accompagnarvi un uomo.
Di che sfigurare avrebbe nella compagna, ma non sembra addarsene. Costei — anche pel suo stare sulle reni come un granatiere — la soprayanza di tanto; e l’espressione con cui la guarda non dice niente di buono.
Eppure, in un’ostentazione di riguardo, si costringe, per rivolgersele, a una postura di sbieco; e il braccio, che da solo le va sull’anca, pur lei, avvedendosene, lo ripone in grembo: dov’esso resta con la goffaggine del braccio ingessato.
Anche il dire sorveglia: ma non disponendo che di quella voce roca e ciò che dice gridandolo, qualunque parola piglia in sua bocca il suono della parolaccia e la conversazione sale da sé al tono della lite.
Atticciata e manesca, le segna il labbro un principio di baffi; e la bocca che anche in riposo s’atteggia come tettasse, appoggiata dal rossetto fuori posto che le chiazza la faccia, testimonia con che vigoria — se tutto, a cominciare dall’oste, non s’opponesse — l’energumena s’attaccherebbe, per farla spiccia, alla botte.
In queste condizioni non le è di maggior soccorso d’una spugnetta, con cui le inumidissero tratto tratto le labbra, il vino che a conto (ormai s’è capito) e (ciò che la inquieta) a tempo dell’altra le vien mesciuto; e che, mesciuto, in lei sparisce come nel cane il tozzo.
Per ciò che il suo anfitrione lo investe a momenti dell’occhiata che si dà all’ostacolo e che lancia a quel gotto sguardi cosi irritati! È esso, il gotto della compagna, sempre colmo, eccolo là, del suo catrame, che le segna il tempo, la mette a regime.
Ne fa delle storie per berlo, questa chioccia che le cova vicino! Quel poco, a questo modo, glielo passa per attizzarle la sete. E le ritarda il suo paradiso: il momento che al calore del vino le tornerebbe il credito nelle proprie grazie e gli uomini là appetirebbero ancora.
Alla sua costituzione produce il capogiro essere messa al passo; ed infatti ecco che respira forte e si volge agitata in giro; come tira il fiato in barchetta e si distrae sulla costa chi sente nelle viscere la mano della nausea.
Ma dove l’occhio di corrucciata imperatrice le va, diritto come una provocazione, nessuno bada a lei di quegli uomini occupati come in un sortilegio nelle loro sudice carte; e non accoglie famigliarità di sorrisi il padrone, cui essa si torce, compreso della sua parte quanto un banchiere.
Quand’ecco la contegnosa allunga al bicchiere la mano. L’energumena trattiene il respiro: anche il respiro potrebbe mandare a monte quel gesto. Impietrata, non distacca dall’altra gli occhi. Nel gesto d’andare al bicchiere la assiste: la asseconda come la madre il malatino che accosta la sua dose di ricino.
Ah che quella lo fa per aizzarla: v’ha intinto le labbra e ripone.
A questa il pugno è volato sull’anca. Il caldo le monta ai pomelli; nell’ira il labbro le trema. Non so come si contiene. Inghiotte. Se l’altra adesso la vedesse, si scosterebbe.
Astiosa le pende addosso: la guarda: vicino minacciosamente, fermo come stesse per schiaffeggiarla.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 02.08.33

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Vetrina,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1151.