Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Ecce homo

Autore: Nicola Moscardelli

Data: 1933-08-16

Identificatore: 1933_360

Testo: Ecce homo
La prima volta che lo vidi fu una sera che piovigginava. S’era addossato al muro di casa e guardava i fili della pioggia scendere e quasi lambirlo. Ma come tutti gli uomini abituati a trattare con gli elementi, mentre si riparava si riposava. Sebbene non l’avessi mai visto da quelle parti, mi salutò, senza imbarazzo, francamente, come se già ci conoscessimo al di fuori delle relazioni sociali. Quel saluto mi ricordò il saluto che i montanari si scambiano sui monti, parola di uomo a uomo nella solitudine uguale per tutti. Poi non ci pensai più.
Un giorno lo rividi: mi veniva incontro. M’accorsi allora che zoppicava. Chiedeva lavoro. Non lo chiedeva per sé, ma per cinque figli che aveva in casa, piccini tutti, un altro ch’era per via, e per la moglie zoppa anch’essa. Chissà quante volte aveva raccontato quella storia, e tuttavia la raccontava sobriamente, senza aggiungere una parola ai fatti. Era stato fino a poco tempo innanzi addetto alla nettezza urbana. Ed uno che sente questa frase può immaginare chissà che cosa: tradotta in volgare essa significa che egli era spazzino. Era.
La sua vita ormai si racconta tutta col tempo imperfetto, è il corso di un fiume che scorre lontano. Lavorava, stava tranquillo, quando fu licenziato. Lui non ne conosce le ragioni. Intuisce, oscuramente, che si deve trattare di cause profonde, più forti di quegli stessi che sono al di sopra di lui. Riconobbi l’uomo abituato a trattare con gli elementi, rividi lo sguardo di lui la sera che si riparava dalla pioggia.
— Dormiamo tutt’e sette in una stanza, a subaffitto, con l’uso di cucina. Ma in cucina non ci si può andare quasi mai perché ci dormono altre due persone.
— Perché non abitate in una casa dell’Istituto?
— Perché son troppo lontane, io senza una gamba, mia moglie pure, come si fa? E adesso ne nasce un altro.
O
Lo vedo di lontano comparire zoppicando, la mano al cappello. La sua vista mi mette a disagio. Egli non lo immagina nemmeno lontanamente, ma è cosi. Egli crede che io possa tutto perché conosco il commendator Tizio, l’avvocato Caio, l’ingegnere Sempronio. Come il credente sente il cielo popolato d’angeli, cherubini e serafini, così egli ad una inaudita distanza dalla terra intravede in una nuvola splendente questi esseri di un'altra razza che hanno poteri terribili, i quali basta che dicano una parola o battano il piede per terra perché il topo diventi un magnifico sauro e la stanza a subaffitto nella quale vivono in sette si muti in una casetta d’operaio che lavora.
Ai suoi occhi io sono il messaggero, l’eletto, colui che ha commercio con gli dèi, dio egli stesso, al quale lui, pover’omo, per una fortunatissima combinazione ha potuto accostarsi senza rimaner folgorato.
Con parole acconcie, senza prenderlo di faccia, cerco di fargli comprendere, alla lontana, che i fatti sono più forti degli uomini e che non tutto ciò che si vuole si può: che nel mondo accadono tante cose di cui non si può sapere la ragione. Mi ascolta, crede alle mie parole, guarda in aria, pensa.
Gli ho fatto fare anche stamane un lavoretto, per potergli dare qualche soldo senza umiliarlo con un’elemosina. Lavora di lena con quel piacere vorace che hanno tutti quelli che da tempo stanno senza lavorare. S’arresta di tanto in tanto e continua ad alta voce con me il discorso, cominciato dentro di sé in silenzio. C’è il sole, un merlo canta nel cuore di un albero, l’orizzonte è vasto. Nella gran luce la natura esprime un senso di ricchezza, di felicità fatale al di là delle nostre norme e dei nostri desideri. Il merlo s’avvicina, canta quasi sulle nostre teste. È addirittura un lusso.
— Sono stato dal commendatore, gli ho portato la lettera, quando ha sentito il nome vostro, siete tanto amici, sùbito farà, alla prima occasione...
Vedo per un attimo i suoi occhi brillare di speranza. Si riabbassa, continua il lavoro.
Egli certo crede di avermi fatto piacere dicendomi che al mio nome il commendatore s’è interessato di lui. Non pensa nemmeno lontanamente che io sono di tutt’altra opinione. O il lavoro c’è, e allora il mio nome o quello di chicchessia non conta nulla: o il lavoro non c’è, e allora il mio nome o quello di chicchessia non può crearlo. Può la vita di un uomo dipendere da una raccomandazione?
Di pensiero in pensiero giungo al punto cruciale del problema. Egli ritiene me e i miei amici arbitri di trovargli un lavoro. Non è vero, ma lui lo crede, dunque per lui è vero. Poiché il lavoro non l’ha trovato egli deve arguire che io ed i miei amici siamo degli assassini e dovrebbe trattarci come tali. Non lo fa, anzi è per me e per i miei amici pieno di riguardi e di rispetto: dunque ritiene giusto che noi ci comportiamo come ci comportiamo e che avendo i mezzi per trovargli un lavoro non glie lo troviamo.
C’è qualche cosa che non capisco. O meglio, capisco benissimo. Nella convivenza sociale agiscono forze oscure, ignote a noi, le quali permettono che la convivenza stessa abbia luogo. Quante volte nelle riviste illustrate compare la fotografia del cane che allatta il gatto, o del gatto che scherza sulla schiena del cane lupo! Con quali frasi di meraviglia sono commentati quegli spettacoli fuor del naturale! Ma quando io vedo gli uomini andare in strada e scansarsi, e chiedersi scusa se si urtano, e camminare nella stessa direzione senza saltarsi addosso gli uni contro gli altri, vedo uno spettacolo assai più fuor dell’ordinario, vedo uno spettacolo divino, qualche cosa che. la mia ragione non può comprendere; ma che è — e tanto peggio per la mia ragione se non comprende. E se poi penso che frammezzo a cento persone che affollano la via, ce ne sono almeno due le quali ritengono che la loro vita dipende unicamente dal buon volere dei rimanenti novantotto esseri, e tuttavia esse continuano a camminare, e forse son proprio quelle che marciano meglio, e non chiedono spiegazione a nessuno, allora posso dire di aver assistito ad un miracolo eguale a quello di Cristo camminante sulle acque.
S’arresta di nuovo. Mi guarda.
— Adesso che lui nascerà, che trova? Niente. Meno male che è la buona stagione. E mia moglie i figli li sa allevare.
Riabbassa il capo, continua il lavoro. Certo se io domani dicessi ad uno qualunque che in una stanza a subaffitto, oggi, sebbene non sia il venticinque dicembre, è possibile assistere a qualche cosa che somiglia, come si somigliano due gocce d’acqua, alla nascita di Cristo nella stalla, mi sentirei dar sulla voce. Non bisogna esagerare.
Ora il merlo tace: la natura digerisce la sua felicità in un assopimento eguale a quello del serpente boa che ha inghiottito il coniglio. Il gatto corre sotto le rose dietro le lucertole, l’ape adocchia i fiori, i ragni stanno in agguato fra stelo e stelo ove hanno teso la lor rete, la gente passa nella strada, veloce, sotto il sole che brucia. L’Universo non è che un ventre vuoto che bisogna riempire ogni ventiquattr'ore, un’immane locomotiva che ognuno fa camminare col carbone che ha.
A sera, quando è l’ora d’andar via, viene a salutarmi. Lo saluto. Vuole ringraziarmi. Non so come fargli capire che non deve ringraziarmi. Bisogna che io misuri ogni parola: egli è l’ambasciatore d’un esercito, dietro la sua persona cascante da un lato vedo l’ombra di centomila altri uomini. Bisogna che io misuri ogni parola: ché a notte alta, destandosi nella stanza dove giacciono in sette, forse egli si ripete una delle mie parole, cerca d’intenderne il senso più a fondo che può, non ha altra compagnia che quelle, misteriosi aeroliti caduti da un cielo invisibile, semi d’una pianta sconosciuta che un giorno crescerà. E ancora una volta provo come sia vero che nella vita profonda sembra che si dia quando in realtà si riceve, e in realtà si dà quando invece par che si riceva.
Frattanto gli alberi fioriscono, i merli cantano, il sole splende sulla terra, la luna nasce, cresce, tramonta, all’ora prevista dagli almanacchi Espero brilla, fedele ai programmi la Radio a pranzo ed a cena fuga i fantasmi che inaspettati lèvansi intorno alle tavole imbandite, e come la ruota intorno all’asse gira l’universo intorno al suo inaudito Perché.
O
Stamane di buon’ora è venuto a cercarmi. Se non avesse perduto la gamba chissà in quale trappola della vita, certo avrebbe saltato. Ha trovato lavoro. Sorride. Questo si chiama sorridere. Attraverso gli occhi si vede l'anima incresparsi, azzurra.
Nicola Moscardelli

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 16.08.33

Etichette:

Citazione: Nicola Moscardelli, “Ecce homo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1170.