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Titolo: Come sono venuto a sapere

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1931-08-26

Identificatore: 123

Testo: Come sono venuto a sapere

Strano tipo quel Palazzolo; troppo diverso da noi anche a tener presente ch’egli non era delle nostre parti, nato da genitori siciliani fuori d'Europa; chi diceva in America, chi nell’Egitto. Impossibile ricavare da lui, che in certi momenti pareva così espansivo, una parola che appagasse la nostra curiosità. A chi apertamente gli faceva domande, la risposta era una faccia incantata d’uomo immerso in altri pensieri; qualche volta restava li con la bocca ebete e gli occhi smarriti d’uno che non riesce a capire la lingua di chi gli parla.

Peggio tentar di circuirlo. Rispondeva con una risata, ovvero s’ab buiava e volgeva le spalle. E spesso rimaneva in disparte per giorni e giorni, tetro, idrofobo. Poi, un bel mattino, ci tornava innanzi tutto schiarito, dimenando, stavo per dire, la coda, saltandoci con le zampe su! petto. Festoso fin troppo; tanto che s’aveva l’impressione d’un’anima tutta spalancata, tutta nostra, da potervi affondare le mani. Errore: al minimo tentativo, si raggricciava.

Tutto quel che potemmo ricavare da lui, fu che veniva da un liceo di Roma, dove aveva fatto, l’anno innanzi, la prima classe... Che fosse un bel ragazzo, lo si vedeva: ben costrutto, movimenti graziosi, biondo come qualche volta i siciliani, d’un biondo un po’ arido, che aveva il tono dell’abbruciaticcio. E quand’era no in pace, quando sorridevano, si sarebbe detto che anche gli occhi contenessero un po’ di quel colore biondo. Bel ragazzo e molto intelligente, ma in una maniera singolare: intelligente nelle cose difficili, tardo invece (e pareva proprio stupidità, non semplice malavoglia) nelle cose che chiunque ci arriva. Gli uscivano qualche volta parole d’uomo maturo, osservazioni di quelle che per forza bisogna dire: ce n’ha dell’ingegno costui!... Poi frasi sceme, puerilità. E, anche nel resto, sbalzi, contradizioni, quanto di più incoerente e scomposto. Perfino il suo modo di vestirsi: capace, un giorno di comparirci innanzi senza cravatta, lui che ne aveva tante e di così belle; capace di combinare calzoni neri e giacca sport.

Dovevano essere gente ricca i suoi; denari, ne aveva da buttar via e spesso ci offriva di menarci qua e là, al caffè, al teatro, nelle pasticcerie; o magari una gita in carrozza nei dintorni. Noi si accettava, ma senza quel bell’entusiasmo, con una specie di scontentezza; e la nostra gratitudine era poi una cosa senza calore, come quando s’adempie un dovere qualsiasi o si paga un conto.

Una volta, ricordo, ci aveva portati in una celebrata osteria lungo il fiume; e lì vino, paste, cose salate, ogni ben di Dio. Noi, superato il primo freddo, ci mettemmo a cantare e pareva proprio che fosse gioia intiera e perfetta. Ma poi, vedendo come egli s’era rannuvolato e se ne stava lì muto ed estraneo, con una faccia che nemmeno sembrava accorgersi di noi, lasciammo cadere il canto e ci alzammo ad uno ad uno. Altre volte, il contrario: era lui il più clamoroso e smoderato; saltava in piedi sulla sedia, picchiava col bastone sulla tavola, rompeva piatti e bicchieri. A non essere stati lì di continuo, si sarebbe pensato ch’era ubbriaco; ma no, non faceva che accostarsi il bicchiere alle labbra e lo deponeva ancor pieno. Pazzo dunque.

Tutti, dopo qualche mese, si ripeteva come cosa indiscutibile: « E’ uno squilibrato, un pazzo ». Ma che si fosse proprio sicuri, non direi. La comune idea che ci si fa della pazzia è, nevvero?, che sia una cosa integrale, tutta d’un blocco: pazzo è uno che è tutto pazzo, dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, dal primo all’ultimo giorno dell’anno... Poi la pazzia, anche se in dose minima, ha un odore speciale: chi non lo sa? Noi, veramente, non lo sapevamo; ma ci sono cose che entrano inavver tite nel criterio d’ogni uomo; e quel non avvertire nel nostro compagno un odore essenzialmente diverso dal nostro, ci lasciava malconvinti. Qualcuno diceva: « E’ un commediante, un commediante antipatico. Crede di poter fare l’eccentrico perché ha tanti denari... ».

Io, se ben ricordo, avevo l’impressione che ci fosse sotto un mistero; che quelle stranezze non fossero né follia né giuoco, ma tentativi di coprire qualche cosa; che quell’ostinato tacere fosse paura di lasciar sapere. Non che io fossi più penetrante degli altri; ma immaginoso si, e mal rassegnato alle comuni spiegazioni. Certo quel Palazzolo ci nascondeva un grosso secreto, una vergogna forse... E la notizia che un giorno cominciò a circolare nei nostri crocchi, venuta chissà da che parte, recò una terribile conferma alla mia supposizione. Si susurrava che il padre di Palazzolo avesse in mano tutte le case di malaffare del Cairo e d’Alessandria...

I giovani, si dice, sono naturalmente generosi. Vero; la generosità giovanile può essere, ed è non di rado, una mirabile cosa. Tutta l’anima si rovescia in un torrente luminoso. Ma perché quella grande effusione avvenga, è necessario che concorrano certe condizioni d’un genere delicato; occorre un piccolo urto, che non è un urto qualsiasi. Urtata malamente, l’anima giovanile può scatenarsi in un impeto di crudeltà. Sarebbe bastato, nel nostro caso, potere scorgere negli occhi del nostro compagno un po’ di quella buona umidità, un’ombra di mortificazione in faccia, una riga di dolore. Niente. Al diffondersi dell’infame notizia, la faccia di Palazzolo si rapprese in una maschera di durezza sprezzante. Ci guardava dalla sua solitudine con una specie di sorriso cattivo. E noi, spietati.

Or avvenne questo. Erano i primi di giugno e già caldo come di piena estate, e gran desiderio di buttarsi in acqua. Discendendo lungo le rive del fiume appena fuori della città, si vedevano teste e spalle di nuotatori muoversi nelle grandi acque rimaste un po’ torbide dopo le ultime piogge; ma diventavano limpide a vista d’occhio e sempre più attraenti. Una mattina, essendomi svegliato di buon’ora, pensai d’andar a fare un tuffo anch’io; ma non nel solito stabilimento, quel zatterone laggiù; no, piuttosto dall’altra parte, nelle acque più libere e belle del fiume non ancora entrato in città.

Gran nuotatore non ero; sapevo, si, tenermi a galla. O forse, no, non sapevo; ma tante volte, dopo le prove dell’anno prima, m’ero vantato di saper nuotare, che ormai ci credevo anch’io. Entro in un canneto (precauzione superflua, poiché la riva era deserta), mi spoglio e passo passo m’inoltro nell’acqua. Una meraviglia, quell'immensa cosa abbagliante, che, più m’immergevo, più diventava d’un colore mai visto, e pareva farsi ancora più vasta. La mia ammirazione cominciò a complicarsi d’una specie di sacro rispetto molto simile alla paura; tuttavia non mi decidevo a tornare indietro né a fermarmi, tant’era, oltre il resto, la dolcezza di quella forza enorme e molle che mi sentivo fluire lungo il petto, su su fino al collo... Improvvisamente, mi mancò ogni appoggio sotto i piedi, come se la sabbia su cui camminavo si fosse di colpo liquefatta. Era il vero momento di mettere in moto braccia e gambe e fare come si fa quand’uno balza in groppa alla gran bestia liquida. Forse qualche cosa di simile tentai; ma troppo era stata la sorpresa, il tradimento; e l’orrore che s’impossessò di me, aggiunto all’imperizia, mi tolse di fare un sol movimento piano, ragionevole. Poco ricordo di quel terribile istante: m’agitai come un forsennato, affondai, tornai su mugulando, sentii nelle cavità del naso l’atrocità dell’acqua che penetra. E già forse cominciavo a non lottar più, quando mi sentii afferrato per i capelli da qualcuno. M'aggrappai ferocemente al mio salvatore che gridava: « Animale! Tiri sotto anche me... appoggiati alla mia schiena... ». La riva, per fortuna, era poco lontana, e due minuti dopo la buona cara terra ferma tornò sotto i miei piedi.

Nemmeno avevo pensato a osservare chi fosse quell’inviato dalla Provvidenza. E grande fu il mio stupore quando, un momento dopo, seduto sulla sabbia, nel bel sole che faceva ogni possibile per consolarmi (ma io continuavo a tremar tutto e il mio petto sussultava inceppato da un nodo di commozione), mi trovai ad un tratto negli occhi la bionda faccia del compagno Palazzolo. Stava anch’egli seduto sulla sabbia a due passi da me; si palpava un braccio graffiato, si succhiava il sangue.

— Che unghie! — mi disse sollevando que’ suoi occhi d’oro azzurro. — Un’altra volta — soggiunse con una specie di sorriso — se vuoi che t’aiuti, devi prima mozzarti le unghie...

Bastò perché lo spasimo del mio animo si risolvesse e scoppiai in una risata singhiozzante, che poi diventò un vero pianto. Ma mi trattenni vedendo che anch’egli piangeva. Gli presi una mano: — Ma perché, Palazzolo?... Perché?...

Egli mi guardò tra le lacrime e non rispose. E anch’io stetti un poco senza parlare, poi gli dissi:

— Povero Palazzolo... Che colpa hai tu se...

— Se mio padre — rispose — è quel che dite voi... Ma non è vero. Mio padre è morto da molti anni e fu sempre un uomo onesto.

E mi narrò singhiozzando la sua spaventosa sventura. Egli aveva, da ragazzo, maneggiando una pistola del babbo, ucciso la sua sorellina. E la madre era morta di disperazione. Ucciso la sorellina e la madre.

Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 26.08.31

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Citazione: Francesco Chiesa, “Come sono venuto a sapere,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/123.