Lettere di Severino Ferrari al Carducci (dettagli)
Titolo: Lettere di Severino Ferrari al Carducci
Autore: Non firmato (Lorenzo Gigli), Leo Longanesi
Data: 1933-12-20
Identificatore: 1933_542
Testo:
EPISTOLARI DELL’OTTOCENTO
Lettere di Severino Ferrari al Carducci
«... S'io fossi Merlino, — il Mago, onnipossente incantator... »; scrisse in una poesia per nozze del 1877: e da allora Ugo Brilli fu il Mago per tutti. Ma un altro Mago in versi quelli del cenacolo carducciano Io conoscevano si può dire a memoria, ed era Il Mago di Severino Ferrari, il fedelissimo del Carducci, che visse e lavorò all’ombra del maestro, morì giovane e non ebbe fama quanta forse avrebbe ottenuto se da quell’ombra avesse potuto emanciparsi. « Con la sua gigantesca personalità — disse un giorno Guido Biagi — ha messo in ombra il povero Severino e l’ha fatto torturare in un lavoro da certosino che gli ha minato resistenza ». (Di questo parere era anche il Carducci. Gli scrisse, una volta che Severino doveva andare a insegnare a Firenze: « Mi dispiace rebbe perderti, ma io sento il rimorso che con me tu ci rimetti... »). Il Ferrari, il Biagi, il Marradi, Alfredo Straccali (ricordate l’ottimo commento al Leopardi per le edizioni sansoniane? ), Luigi Gentile, pulcini del pollaio fiorentino dell’Istituto Superiore, si misero subito sotto a dar vita alla solita rivista letteraria, che fu I nuovi goliardi, di non ingloriosa memoria; prima vittima, naturalmente, il povero Rapisardi, bersaglio d’obbligo. La rivista morì quando i redattori ebbero terminato gli studi e dovettero sbandarsi. Severino Ferrari passò a insegnare per un biennio a Bologna, dove frequentava intanto le lezioni del Carducci, poi fu sbalestrato qua e là per l’Italia e finalmente nel 1893 incaricato di coadiuvare il Carducci nell’ Università bolognese pur continuando a insegnare, e quattr’anni dopo chiamato a sostituire il Nencioni nell’Istituto Superiore di magistero femminile a Firenze. A Firenze Severino scrisse Il Mago, poemetto d’otto canti, d’invenzione un po' ariostesca e un po’ heiniana: lo ristampò nel 1906 L. De Mauri in una edizione torinese e vi premise alcune belle pagine biografiche. Si tratta del racconto d'una strana caccia al lume della luna che il Mago (Ugo Brilli), sentimentale innamorato di Biancofiore, imprende accompagnato dai suoi fidi cani, i « nuovi goliardi »: la selvaggina sono gli scrittori più celebrati del tempo che al poeta sembrano allontanarsi dalle pure tradizioni della nostra letteratura; e Biancofiore l’arte ideale e sincera rianimata dal robusto martellatore Giosuè Carducci. Ma Biancofiore è anche l' irraggiungibile sogno della bellezza. « Biancofiore ov’è? » dirà il Carducci a sè medesimo e a Severino.
Rosignolo di poche primavere. Morì giovane, s’è detto, nel 1905, in una casa di salute toscana, colpito nel cervello e tradito dal destino. Morì un anno prima del suo maestro che l’aveva per « caro amico e figlio ». « Tu hai l’anima buona e profonda l’intuizione della poesia. Ti ringrazio e ti amo ». Alle « arcane fantasie » del Mago va innanzi una lirica del Carducci, il quale a nessun altro allievo mai rivolse nè dedicò versi. Ma a Severino sì. A lui intitolò per esempio il sonetto « Commentando il Petrarca»; e nel ’98 gli mandava da Gressoney l’altro sonetto « Sant’Abbondio » e l’epigramma-idillio « L'ostessa di Gaby ».
L’intimità tra il Ferrari e il Carducci ha nelle lettere del primo al secondo il suo monumento letterario. « Al poeta Severino Ferrari perchè devoto a Petrarca e a Carducci », scrisse Jessie Withe Mario donandogli una reliquia petrarchesca (e i nomi del Carducci e di Severino vanno insieme sul frontispizio dell’edizione sansoniana delle Rime). Onde l’epistolario è, sì, un gran convegno di poeti antiqui e novi. Lo raccoglie Darte Manetti: Lettere di Severino Ferrari a Giosuè Carducci (ed. Janichelli, Bologna, 1933 - L. 10); il quale Manetti ha consacrato al Carducci e agli epigoni carducciani molte fatiche di ricerche e di rievocazioni, tra cui codesto volume delle Lettere che è uno specchio della vita e del costume letterario tra il 1876 e i primi anni del nuovo secolo: « Illustre professore, illustre signor professore, Illustrissimo professore, Caro e illustre maestro, Carissimo maestro »: il tono è sempre quello della massima reverenza confidente, sia che gli parli d’un incunabulo, sia che gli spedisca un cestello di tortellini contadineschi e d’anitre selvatiche; tono che non mutò mai dal principio alla fine. Una specie di cronistoria del cenacolo disperso si dipana giù per un trentennio, e vi son notizie di tutti, del Brilli e del Pascoli, del Biagi e del Salveraglio, del Rocchi e del Marradi. Tutti avevano un soprannome per distinguerli alla lesta: e accanto al Mago c’è Schicchi (il Pascoli), e c’è il gattone (Guido Biagi, perchè portava d’inverno un ricco pelo di gatta sul bavero), e c’è Bianco Cappello (Filippo Salveraglio perchè inalberava un cappellone di feltro bianco), e i due gufi (Giacomo e Cesare Janichelli) e Biancofiore (lo stesso Ferrari).
La posizione di Severino di fronte alle fantasie del suo nume è intransigente. Non ammette che si sgarri. Vedetelo nella polemica originata dall’articolo di Edoardo Scarfoglio sui sonetti di « Ça ira ». La lettera ribolle di sdegno. Ma il Carducci fu, nell’occasione, più sereno. Nella nota polemica del « Ça ira » trattò anzi lo Scarfoglio con molto riguardo, e poiché secondo lo scrittore napoletano ci sarebbe stato bene, sul tema, un poema epico in terzine, il Carducci concludeva: « Pace, ammiratori e dispregiatori: io non intesi nè intendo comporre nessuna epopea storica ».
Di lì a poco Severino gli scrive:
« Ella che ha tanta influenza col Baccelli lo preghi per carità di fare in modo che i giovani abbiano una grammatica ben fatta. Così non si va avanti, è un orrore. Una grammatica fatta logicamente, fisiologicamente se si vuole. Lo creda, fra venti anni se una grammatica non ci soccorre a tempo, sarà una sfacelo delle teste italiane ». E il Carducci: « La grammatica, l’Italia officiale ci pensa come al terzo piè che non ha. Rettorica grassa ci vuole a inghebbiare i paperi nati dall’incrociamento dell’Aquila bastarda d’Arcadia con lo struzzo nano del romanticismo. Vigliaccheria tutta! ».
Più d’una lettera si riferisce ai propositi del Pascoli, professore di latino a Matera e a Massa, dove intristisce. « Vorrebbe essere traslocato a Bologna affermando che Ella gli ha impromesso di annotare in collaborazione Orazio: e da vero questa sarebbe cosa bellissima e in tutto, degna del Rinascimento ». Ma il Gaudino era sfavorevole al Pascoli. « Si trattava d’un posto di poca importanza e soprattutto di grammatica e di stile; il Vitelli fa egli il resto. Poi il Pascoli tenuto per le cigne dal Vitelli avrebbe in pochissimo tempo riparato a quanto gli manca... ». E il Carducci ad ammonire (si vedano le reciproche del poeta nel secondo volume delle Lettere stampato nel 1913): « Ecco. Il Pascoli ha molto ingegno. moltissimo gusto, e arte anche di scrivere il latino. Quel che si può desiderare giustamente in lui è la cognizione della filologia germanica: egli non volle darsene mai pensiero e nè anche studiare il tedesco... ».
1891: i giorni della « scenata » studentesca contro il Carducci colpevole di filomonarchismo e di crispismo.
Ma l’evoluzione politica del poeta datava ormai da tempo. Scrive Severino: « Ancora da Lei discordando, chi può erigersi a suo giudice? Lo stesso fermo coraggio della sua ultima battaglia non doveva accrescerle il rispetto? Noi, suoi vecchi scolari, pure se in altro partito ci possiamo trovare, terremo sempre vivo nei cuori l’amore e la devozióne per Lei... ».
Sentimento che l’accompagnò per tutta la vita, sin sulla soglia dell’oscuramento. Leggiamo l’ultima lettera di Severino, al genero del Carducci: « Il mio medico è venuto a prepararmi oggi alle 14 perchè domattina sia pronto a partire con lui perdei bagni definitivi di cui non mi ha voluto dire il nome » (bagni definitivi: la casa di salute). Vi rimase ancora un anno, vagando fra i torbidi fantasmi dell’ incoscienza. Due giorni prima s’eran riuniti gli amici a banchetto per festeggiarne (pietosa menzogna) la recuperata salute. Il Carducci, conscio della tragica verità, si esime dall’invito. E l’ indomani Giuseppe Albini (uno scomparso di ieri) scriveva al genero del poeta: «... fu bene che il Professore non venisse: si risparmiò la gran pena di dover festeggiare la guarigione di un amico proprio quando è sopravvenuta la certezza che non guarisce più ».
« Solo solo tra questo lacrimevole ruinare di una civiltà, a dire e a ripetere alcune verità italiane ed eterne»: dal Taccuino di Arno Borghi di Ardengo Soffici, uscito in questi giorni. (Dis. di Leo Longanesi).
Collezione: Diorama 20.12.33
Etichette: disegno, Leo Longanesi
Citazione: Non firmato (Lorenzo Gigli) e Leo Longanesi, “Lettere di Severino Ferrari al Carducci,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1352.