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Titolo: Il vecchio caffè

Autore: Adriano Grego

Data: 1934-01-17

Identificatore: 1934_72

Testo: Il vecchio caffè
Ho ritrovato dopo molti anni, in un vecchio caffè, un austero rudere umano: uno di quelli che ai loro tempi parlavano « ore rotundo » tra un cerchio di discepoli. E ora trascina la sua stanca carcassa, inutilmente, e spaurito di tanta incuria si guarda d’attorno, come un semidio precipitato.
Il caffè era la sua degna cornice. Qui, tra tacche dorate e mosaici in cui si disegnano a tinte pallide castissime nudità di putti e di vergini velate, qui si davano convegno un giorno gli uomini appartati dal mondo. La vetrata, che reca in stile barocco l’autenticazione di un anno di nascita di due secoli or sono, serviva a dividere gli eletti dai profani. Perché gli eletti avevano un tavolo appartato nella prima saletta, guatavano con dispregio la bibita indispensabile, spaziavano tra le ombre e le luci della metafisica, come tra una pletora di oggetti casalinghi da disporre in modo nuovo con beneficio di tutti. Erano giovani e pensosi, questi artisti, questi pensatori solitari, tanto che non s’avvedevano del tristo risalto di certe loro cravatte smaccatamente verdi sul grigio liso dei loro abiti a doppio petto: gli è che certa negligenza dell’esteriore pareva ad essi sicurissimo indizio di animo assorto in eccelsi filosofemi ed era comunque la testimonianza d’una inettitudine nativa all’armonia.
Non era difficile conoscerli uno ad uno nella loro vita e nei loro studi; essi stessi, del resto, avevano più volte pensato al cómpito dei futuri biografi e si erano da soli previsti, dal giorno della nascita al giorno della morte, attraverso le pagine riassuntive di una storia letteraria. Qualcuno anzi, all’atto di vergare una lettera d’amore, aveva fatto un rapido confronto con qualche epistola famosa di Abelardo; poi, con un intimo sorriso, aveva continuato a scrivere illustrando con immodesta sproporzione il proprio « io » più assai che il proprio amore.
Era il magnifico isolamento. Fuori della vetrata rotolavano i carri. Silenzi e rumori. Passavano i giorni, le stagioni. Gli appartati erano nel loro liquido naturale e parlavano, parlavano. Solo a tratti si vedeva in loro un moto di fastidio, quando i giuocatori di terziglio, di burro, di goffo pronunciavano con lena aggressiva le parole rituali del giuoco.
* * *
Ora ho ritrovato uno di questi santoni, incanutito. Lo ricordo lucidamente. Era una volta un parnassiano dolcissimo, un distillatore di facezie ottocentesche, un giocoliere di paradossi, e molti giovani si riunivano al caffè per ascoltarlo, per vantarne l’amicizia, per ripetere più tardi, come rivoli nati da un torrente, qualcuna delle sue belle parole. Pareva davvero cantasse. Aveva sdegni improvvisi, gusti da sperperatore, strane amarezze che segnavano il distacco tra la sua vita di eroe contemplativo e la vita degli altri: la vita dei poveri « homunculi » pagatori di tasse, presenti alla leva, impigriti dai figli e dai giudizi volgari.
La sua barba rubizza gli serviva come lo stocco al cavaliere e tutti in buona fede pensavano che se mai avesse voluto alzarsi da quel divano di velluto cremisi, avrebbe potuto, il poeta, capitanare eserciti di ventura e conquistare magicamente la gloria degli uomini d’arme. Invece stava seduto. Peccato! Stava al suo posto con aria affranta come se gli occhi e la mente per tutta la notte avesse affaticato sui palinsesti o sull’aggiustamento delle categorie universali. A tratti lasciava cadere dei versi come una cascatella di perle; e a tornare nella strada, più tardi, gli ascoltatori avevano la sensazione di ritornare in un brago.
* * *
È incanutito, ora, l’artista e trasuda amarezza. Si è stirato, raccorciato, e a vederlo si ha la sensazione che tutte le ossa alle giunture si siano calcificate e premano a nodi sull’epidermide di tamburo. Trova ancora, talvolta, compagnia, ma è gente di poca speranza che non sa ascoltare con religione. I giovani d’ora non ascoltano più.
— Un caffè doppio al Maestro — proclama il cameriere anziano e i nuovi garzoni trasmettono l’ordine in cucina senza curiosità e senza riso.
Poi arriva il caffè, e il vegliardo lo sorseggia. Sul tavolo di marmo si vedono geroglifici a matita, torsi di donna, cifre incolonnate, chiome primitive di alberi. Perché il cameriere non cancella questi segni col tovagliolo bagnato?
Da un tavolo vicino ascolto l’uomo che parla. La barba è diventata floscia e giallastra. La bocca trema lievemente; le parole escono ancora ferme, con una sola consonante pizzicata, come vent’anni prima. E questa nota imperfetta, curiosa, sa di culla e di sudario. Lo ascolto parlare. Intatta è la vivacità del suo spirito, intatta la memoria che scova antiche rimembranze poetiche, rigurgiti di cultura, una frase solitaria di Polibio. Ho l’impressione che ripeta vecchie parole, come i vecchi tenori tentano colla voce arrochita dal catarro e dall’asma le note che una volta facevano tremare i lampadari.
Pure, qualche cosa di virgineo è rimasto in questa austera carcassa. Non nel fisico risecchito, ma nella mente: una superstite gentilezza, una invitta speranza. Spalancandosi le finestre al mattino, il vecchio poeta deve guardare il cielo, a ponente, a levante, per cercare l’ultima stella: quella che nelle orgiastiche fiammate giovanili gli appariva come un particolare privato del cosmo. Nessuna stella nel cielo. Bene. Arriverà domani. Invitto è lo spirito, anche se nel logoro caffè a mosaici e a lacche, nel vecchio caffè in cui una volta sostavano le marsine nere o marrone degli uomini che servivano i Carignano, poca gente si raccoglie ad udire le rotonde sentenze del vegliardo.
A tarda sera l’uomo si alza, saluta con un bonario gesto del capo ed esce nella strada, stupito di non vedere una berlina con quattro cavalli bianchi e una folla reverente che gli faccia ala al passaggio.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.01.34

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Citazione: Adriano Grego, “Il vecchio caffè,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1437.