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Titolo: Ricordi di un editore vivente

Autore: non firmato (Lorenzo Gigli)

Data: 1934-02-21

Identificatore: 1934_153

Testo: Ricordi di un editore vivente
Vallecchi è un editore ancora giovane e mirabilmente operoso. Stampa ogni anno, da vent’anni, molti libri di autori che «vanno», da Papini a Viani, mette fuori collezioni di poesia, di prosa, di nomi distinti e di stile tipografico distinto, conduce avanti una raccolta popolare per il prezzo ma aristocratica per il contenuto nella quale passano opere originali nostre e capolavori delle letterature straniere, insomma dà lustro all’editoria italiana e fornisce merce scelta ai librai e ai lettori. Un giorno, avendo messo da parte una ricca esperienza in fatto di uomini e di cose letterarie, pensa di scrivere le sue memorie e come un patriarca del buon tempo antico le dedica ai figli e ai nepoti. Il libro di Attilio Vallecchi si intitola Ricordi e idee di un editore vivente: costa sei lire e chi lo legge le spende bene perchè, oltre ad aver sottomano un libro vivo e piacevole, compie un’opera meritoria, chè il ricavo della vendita va a beneficio del Dopolavoro dell’azienda editoriale che il Vallecchi dirige. Non è un’autobiografìa. L’editore ferma sulla carta alcune vicende della sua esistenza svoltasi attraverso un periodo sociale e storico interessantissimo, a contatto di movimenti uomini e idee che hanno contato nella vita italiana. Scrive e dice quanto ha visto nel senso, egli spiega, « di quanto ho visto dall’osservatorio da cui la mia vita ha avuto possibilità di visione ». Noi corriamo subito alle « cose viste » del tempo che precedette la guerra, dell’inquietudine della giovane generazione di fronte alla carenza delle classi dirigenti e ai formidabili problemi nazionali che si andavano presentando alla coscienza italiana. È il tempo del nazionalismo corradiniano, del movimento vociano, della guerra di Libia; è il tempo di Lacerba, vigilia infocata della guerra mondiale. Siamo al 1913. Nel gennaio di quell’anno Lacerba nasce. Vallecchi accetta di stamparla: « Sentivo anch’io la necessità di contribuire a interrompere il torpidore spirituale da cui era presa allora l’Italia e pensai che a tentar di raggiungere tale intento bene sarebbero riusciti Papini e Soffici ». Lacerba nasceva come atto di liberazione, e si mise subito contro tutto e contro tutti, fin contro la stessa Voce « ch’era nata per svegliare (proclama un maltusiano dei lacerbisti) e ora serve a far russare gl’italiani maggiormente ». Ma soprattutto impegnò subito battaglia contro il borghesismo imbelle e contro i sovversivismi che tentavano di rovinare la Nazione. « Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale — avvertiva l’articolo programma —. Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, neuritismi, cretinismi e moralismi ». Come conseguenza a tali premesse, alcuni maltusiani mettevano in quarantena gli uomini d’allora, e non era poco coraggio adoperare l’arma del ridicolo contro certi santoni:
Benedetto è quella croce
che ti serve anche il Breviario;
preferisco il sillabario, ci s'impara assai di più.
È Salvemini la cosa
che ti porta il pipistrello;
a vedere non è bello, a sentirlo poi fa schif.
Socialista è quella cosa
ch’urla e strepita al comizio, ma che fugge a precipizio
se compare il questurin.
La vivacità di espressione, il paradosso come mezzo di persuasione e l’intelligenza de’ suoi scrittori fruttarono a Lacerba un successo clamoroso. Papini vi agitò, tra proteste scandalizzate e consensi entusiastici, i problemi più scottanti dell’ora. Ardengo Soffici vi combattè alcune delle sue più generose battaglie per l’arte e vi pubblicò a frammenti quel suo Giornale di bordo che il Vallecchi classifica benissimo tra le cose più belle della letteratura contemporanea. Palazzeschi vi stampò alcune liriche stupende. Sopraggiunse anche Marinetti, e per un anno intero il Futurismo rappresentò il programma di Lacerba. La battaglia contro il vecchiume democratico e massonico si intensificò. In un proclama di Marinetti del 1913 troviamo queste sacrosante parole: «Italia sovrana assoluta. La parola Italia deve dominare sulla parola Libertà » (c’era da farsi linciare). E poi: « Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani. Orrore del quieto vivere, amore del pericolo e attitudine dell’eroismo quotidiano ». Commenta il Vallecchi: « Erano propositi che parevano prodromi di rivoluzione o di guerra. Tutta quella agitazione di spiriti doveva certo sfociare in qualche grande avvenimento ». Di lì a pochi mesi scoppiava il conflitto mondiale.
Tutte le discussioni morirono. Ci si battè per una sola conquista: che l'Italia non rimanesse neutrale. Scriveva Soffici: « Non possiamo stare zitti. Forse questa è l’ora più decisiva della storia europea dopo la fine dell’Impero romano ». Nascevano i canti dal cuore dei poeti. Fernando, Agnoletti, morto poche settimane fa, lanciava da Lacerba quelle sue impetuose strofe a Trento e Trieste che tutta la gioventù italiana mandò a memoria:
In cima di quell’Alpi c’è la neve
rossa di sangue — sangue italiano.
C’è l'Austria che la tinge a mano a mano
ma la vendetta — non tarderà...
Uno degli episodi tipici della battaglia interventista dei lacerbiani è il famoso referendum per l’intervento. Sì, rispondono migliaia di italiani. Tra i firmatari, primi gl’irredenti, da Nazario Sauro a Scipio Slataper. Uscì, intonato alla diana, anche l'Almanacco contenente quella canzoncina ironica del neutrale che, cantata nei locali pubblici, faceva andare in bestia i neutralisti di tutte le marche. Era una lassa esasperante di trisillabi tronchi, tutti terminanti in al:
Il Neutral
molto val, dà lustro allo Stival.
La gran palla mondial, se traballa e sta mal, al Neutral cosa cal?...
e avanti di questo passo.
La campagna per l’intervento ebbe momenti drammatici anche nell'ambiente lacerbiano. Due giovani Ugo Tommei e Luigi Bellini, si rivolsero con invocazioni ispirate al Re e al Duca degli Abruzzi. Bellini e Tommei furono tra coloro che non ritornarono. In loro onore, come agli altri scrittori morti in guerra, sono state intitolate per volontà del Duce alcune strade di Roma e di altre città.
Gli eventi precipitavano. C’è un numero di Lacerba che reca la data del 15 maggio 1915 ed è storico. Contiene « l’ultimo appello » firmato in gruppo dai redattori del foglio e un articolo di Soffici che concludeva con queste parole: « Il popolo italiano, questo popolo povero e traviato, ma che due millenni di storia hanno meravigliosamente affinato, non ha potuto sopportare l’ultima umiliazione e s’è rivoltato con sublimità. È difficile per ora calcolare la portata di questo atto che mette senz’altro la nostra nazione all’avanguardia dell’Europa... ».. Così chiuse Lacerba la sua vita, mentre i tamburi sonavano a raccolta. Vi collaborarono assiduamente, accanto a Papini e Soffici, molti altri poeti e scrittori, da Marinetti a Palazzeschi, da Ungaretti a Folgore, da Sbarbaro a d’Alba, da Moscardelli a Rosai.
Sui loro nomi si chiudono i ricordi di Attilio Vallecchi per far posto alle « idee ». Che sono quelle di un editore moderno, realistico, audace e insieme sanamente ottimista. Tra dieci anni, egli assicura, l’Italia avrà conquistato il primato spirituale tra le genti. E non lo dice per far della rettorica. Vallecchi ha tra le tante un’idea che vorrebbe veder realizzata, ed è quella di inondare il mondo con grammatichette, in varie lingue, fatte bene, che invece delle solite frasi banali contengano delle proposizioni atte a dar notizie importanti e significative del nostro Paese, della nostra storia, delle bellezze naturali e artistiche, delle opere pubbliche, delle realizzazioni del Fascismo, ecc. È un’idea che lo onora e che rivela in lui, accanto allo spirito pratico, anche l’anima del poeta.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 21.02.34

Citazione: non firmato (Lorenzo Gigli), “Ricordi di un editore vivente,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1518.