Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Immagine di Cioceria

Autore: Luigi Volpicelli

Data: 1934-04-18

Identificatore: 1934_183

Testo: Immagine
di Cioceria
Innanzi che s’aprano i piani d’Arcinazzo, la terra ha l’aspetto allucinato dei confini del mondo: ignote conche aperte tra valichi informi, dove i rari alberi inceneriti già nel loro primo disciogliersi alla vita paiono il segno più certo dell’imminente mistero. E intorno, un brusio grave scopre il silenzio folle degli elementi.
Pure, d’agosto, in queste ore canicolari, può sorprenderti, come un gorgoglio d’acque, il suono di una fisarmonica. Una freschezza improvvisa che accompagna le brigate in pellegrinaggio al Sacro Speco. Gli uomini coi vestiti neri scolorati di polvere hanno ghirlande di fiori finti intorno al cappello: le donne cantano ancora le sacre nenie degli antichi penitenti. Così accaldate le giovanotte sono più belle; si fanno ai margini della via, per scansare l’automobile, con gesti snelli di capre. È l’unica certezza del mondo di qua.
Il paesaggio muta allora improvviso: le montagne si coprono di bosco e di macchia, la vasta pianura si rasserena nel verde: una mandria di cavalli galoppa annitrendo alla solitudine selvaggia. Verzure curate e cottages segnano l’età felice dell’uomo.
La strada s’ingolfa per uno stretto dirupo, fra gole e serpentine, e sfocia a picco sulla conca del Sacco. Nel mare sottostante di nebbie e d’azzurro emergono, rosee, le cime più alte dei monti ciociari.
La macchina, come un cavallo alato, ruota con ampi giri per discendere a valle, tocca la terra, risale il corso del fiume, cui fanno corona, di lontano, i monti armati dei popoli delle origini. Ernici e Volsci, Equi ed Ausoni ascoltano ancora sprezzanti il passo del dittatore Camillo. Vissuta fuori del tempo, la terra ha conservato gli antichi nomi e par quasi assorta nell’antico tormento.
* * *
È certo il trionfo di Roma che impoverì la sua vita: ma è pure una sorta di aristocratica misantropia, lo stoico dispetto del mondo, di chi dovette subire e non poté accettare la ferrea legge del più forte. Crollati i regni degli antichi pelasgi, le mura dei ciclopi rimasero deserte. L’amplesso della terra le avvince. Esausti gli uomini guardano lungo le pendici sassose i brevi greggi in pastura. Il silenzio sospeso vince il ruinoso corso degli evi e ha conservato, oltre il tempo, il dramma della razza.
Un popolo armato di solitudine e di silenzio, cui basta una chiesa per le solennità della vita, e che vive isolato nei campi, alla vigna, dove l’uomo è ancora re e governa la sua casa con l’arte immutata dei padri. I saccheggi orrendi, gli imperi fugaci, i signori che hanno dominato via via non sono riusciti ad impegnare, questa gente, da allora unita con un tenace patto di comunanza solo alla terra. Chi ha tralignato è dovuto andar via, e ha portato a Roma imperiale e papale il dono prezioso di una forza millenaria ed intatta: sembra la superba vendetta di un dio decaduto.
Uomini forti, con profondi occhi pensosi, si piegano sulla vanga con gesti abitudinari di un’arte casalinga. Ogni zolla è messa a cultura; anche il calcare, ricoperto di un pugno di terra rossa, che ha riempito le rughe e scola di ruggine gli scheggioni, alimenta gli oliveti sereni.
Nella vigna è tutta la vita e la storia e la gioia di questo popolo. V’è l’armonioso disordine dell’abitazione, l’amorosa corrispondenza di due esseri che s’amano. Pingue, discinta la vigna, accoglie nei solchi il neonato che piange e poi sorride, il vecchio che siede e guarda e pare che pensi.
Qua e là le marmitte, la scopa, i panni stesi al sole; ai piedi dell’olmo, i bambini scalzi, in gioco: pei filari trotterella grufolando il porco o ruzza il cane. Dove c’è una polla o un pozzo, non manca nemmeno l’orto, tra le viti, coi peperoni, le zucche, i cetrioli, e fra il grano e la polenta è anche l’albero da frutta.
Così dovette essere l’arte agricola allora, così è rimasta. Le violenze di una storia più forte si sono spezzate contro questo popolo indomito.
Anagni, rammaricata Avignone di Cioceria, si sgretola nella solitudine. Le torri son fatte fienili, le bifore e i portali a sesto acuto sono stati murati nel silenzio. Alatri medioevale è un piccolo borgo prono in adorazione della sua rocca pelasgica, ove sono incise ancora le divinità falliche di questa terra canicolare; Arpino sbarra il passo a chi tenta di salire sull’acropoli disabitata.
A Pofi ho visto il funerale di un bimbo. Mi pareva di camminare per un paese abbandonato: ad un tratto, fui scosso da un salmodiare sommesso: mi voltai. Era un prete, con la cotta bianca e un crocefisso fra le mani. Dietro di lui la giovane madre che portava in testa la piccola bara. Seguiva pregando solo una donna.
E m’inseguì desolato il rintocco della campana.
Anche le donne sono in campagna. Scalze, sfiancate di fatica, con la veste di sei metri di stoffa pieghettata, esse hanno tuttavia gesti essenziali di statue. Le fanciulle, abbronzate, con le ciocie a pizzo come babbucce d’odalisca, portano il busto sopra il corpetto, come un’armatura per il seno impetuoso. E nei neri occhi a mandorla hanno lo sguardo fermo della verginità guerriera.
Esse vanno non guardate e senza guardare: i giovani, a frotte, non interrompono i loro canti quando elle passano. Ma da soli non si può cantare.
Come in un profondo cielo capovolto, tremano mitiche costellazioni le luminarie nelle notti d’agosto, ed i rimbombi festosi si fan eco di paese in paese: estivi patroni di raccolti e di pioggie, i Santi guardano con gli occhi imbambolati, tra il fumo di ceri, la folla prona, e girano a benedire il paese, traballando sulle spalle dei portatori. A tratto a tratto, il grido di grazia aspro come una fucilata. Questa gente terrestre è di una frugalità estrema e chiede umili doni dal Protettore. Ma talora anch’essi falliscono.
Altro mestiere che la campagna non v’è. Per quanto i monti all’intorno siano tutti selve e macchie, non v’è il boscaiolo. Son le donne che si partono di buon’ora, quando anche il contadino muove per la campagna in cadenza con la sua bestia, son le donne che vanno per legna e tornano, innanzi che il sole infuochi, con la loro fascina.
I pastori, in una sorta di comunità patriarcale, stanno raccolti nelle piane della Semprevisa e del Lupone a scrutare le stagioni sul mare lontano. In autunno se ne vanno con le bestie e le provviste. Da secoli scendevano per Cori o per Roccamassima in quella che fu la palude, fino alla macchia di Terracina, dove si ritrovavano con gli abruzzesi della Marsica. Ora la dinamite ha fatto saltar via la selva per dar luogo a Sabaudia, e la vita si trasforma alla forza fascinosa del mondo nuovo.
* * *
Nei paesi ammassati di case sui cocuzzoli delle colline, stagna il sole nella piazza deserta. Vicoli a gradinata, che precipitano da antri profondi di balconi come cascatelle limacciose, sboccano nella via principale lunga e stretta, dove solo gli asini, la sera, s’affrettano verso il riposo della stalla conosciuta. È l’ora delle memorie e delle preghiere. Solo, per poco, qualche raro canto nelle osterie fumose. Sono i più giovani che fanno le otto e le nove. Una frasca sulla porta e un pezzo di carta con sopra un numero.
Di giorno, anch’esse sono deserte.
I pochi negozi contano gli avventori e vendono di tutto per campare, ed anche perché il contadino non ama di girar molto.
Nelle botteghe egli deve trovar sottomano ogni cosa di cui abbisogna. Per il resto è paziente; attende che di là il padrone abbia finito la sua mano di tresette e magari si fa da presso a seguire il giuoco. Anche tu, cittadino, ti abitui: e guardi le file di scarpe, le casse di maccheroni, i barilotti di aringhe, le felci appese a! soffitto per raccogliere le mosche, che la sera finiranno nel sacco. Dopo, viene finalmente una bambina. I suoi capelli sono dell’oro caldo del grano, gli occhi neri: s’arrampica, senza interrogarti, oltre la scansia del formaggio e del salame e ti prende le sigarette. Indi torna via com’è venuta.
Ma nei giorni di mercato questi paesi paiono feste durante una sosta di nomadi. I venditori di pesce allestiscono sulla via la cucina e i tavolini, e il gioioso odore del fritto avvolge il frastuono. I cavalli di buona razza e gli armenti piegano la testa sotto la mano del sensale, che accarezza e scruta: la gente sosta a esaminare le pezze di stoffa, i rami, le stoviglie; ride contenta delle grida dei venditori, che pare vogliano stordire il contadino avaro coi loro fracassi. E allora escono fuori anche le monete d’argento e le carte nascoste nel seno delle donne.
Luigi Volpicelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 18.04.34

Etichette:

Citazione: Luigi Volpicelli, “Immagine di Cioceria,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 19 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1548.