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Titolo: L’uomo delle caverne

Autore: Mario Sobrero

Data: 1934-05-02

Identificatore: 1934_205

Testo: L'uomo
delle caverne
Consumate le provviste allegramente, i giovani e le ragazze si alzarono per riprendere la salita attraverso i boschi di abeti. L’uomo di cinquantanni disse che rimaneva a custodire i sacchi. Uno di quei giovani era il figlio di un suo amico; le altre persone le aveva conosciute nel paese dov’era venuto, qualche giorno addietro, per un breve riposo. Facendo il chiasso i compagni gli prepararono coi sacchi un guanciale, le ragazze — sigaretta tra le labbra, berretto di traverso — gli ammucchiarono addosso il fieno che era sparso là intorno a seccare. E gli fu augurata la buona notte.
Egli vide il drappello allontanarsi, sparire; udì le voci salir per l’abetina, le risate delle ragazze esplodere sempre più lontano; fin che anche quei rumori svanirono ed egli si trovò solo. Stava coricato all’ombra d’un gran macigno e si era subito tolto quel fieno di dosso; intorno aveva il vasto ripiano, che pareva una ricca prateria ma invece era un terreno guasto da un affiorare o stagnare di acqua; un cerchio di alte rocce, alcune a picco e tutte nude, altre vestite d'abeti, limitava lo spazio da un lato; verso la valle il ripiano terminava con uno spigolo netto oltre il quale si sentiva l’ampio e profondo vuoto; di là da questo vuoto, molto distanti, si levavano altre montagne, con rotti ghiacciai e con punte acute spolverate di neve. Tutto era immerso nella luce d’agosto. Sotto il cielo denso passavano le nuvole di molti colori che in montagna danno l’apprensione, in fondo non spiacevole, che si prepari un temporale.
Il luogo, col suo orizzonte, era un circolo magico; separato in certa maniera incomprensibile da ogni altra realtà. Non si vedevano né udivano mandre, non si scorgeva un casolare; qualche macchia d’alberi accentuava l’aspetto abbandonato del pianoro; dal paese invisibile il suono delle ore non riusciva ad arrivare là; non voli né gridi di uccelli, di movente nient’altro che le nuvole, unico rumore quello delle acque che cascavano dalle rocce o gorgogliavano nell’acquitrino. L’uomo ebbe l’immancabile pensiero: « Ora siamo soli, la terra ed io ». Respirava con maggior piacere l'aria, toccava con lo sguardo la platèa verde, le rocce, i nevai lontani, e godeva più intensamente, come di cose appartenenti a lui solo. Nella coscienza aveva un ricordo vago della grande città e della vita difficile donde era venuto, della vita rumore folla contrasto. Si librava in quella solitudine come se fosse la felicità.
Ma anche dentro il cerchio magico si vedeva e sentiva, un minuto dopo l’altro, il tempo passare. Si capiva bene — seppure il sole era ancora quasi a piombo — che esso andava, come sempre, verso un tramonto e che alla luce esaltante sarebbe succeduta l’umida ombra e che gli alberi e le rocce si sarebbero trovati in mezzo al freddo della notte e che sopra i ghiacciai avrebbe di nuovo girato il congegno silenzioso delle stelle. L’uomo coricato all’ombra pensò all'alba dell’indomani, al séguito dei giorni e degli anni, e si vide in un mondo senza l’umanità, solo per sempre com’era solò in quel momento. Provò tristezza, angoscia. Immaginato come angolo di una terra interamente deserta, il ripiano col suo orizzonte appariva tutto dipinto di quella tristezza, di quell’angoscia, anche nella splendente luce, anche dove le cose si mostravano perfette e felici. E perché vivrebbe — si chiedeva colui che guardava — un uomo solo? La sua vita gli apparirebbe priva di scopo. L’esistenza di ciascun uomo ha un valore in quanto esistono gli altri uomini che sanno o potrebbero sapere ch’egli è al mondo, e coi quali egli ha o potrebbe avere dei rapporti. Ha un valore anche perché altri uomini sono vissuti prima di lui ed altri vivranno dopo. Dunque, l’uomo-individuo non è che un concetto. Forse qualche eremita è vissuto completamente solo, abolendo l’umanità: solo con Dio.
In questo pensare, essendosi accomodato bene col capo sui sacchi e con le membri sul fieno, si addormentò.
* * *
Lo risvegliarono colpi secchi, dolorosi, nei piedi e nelle gambe, come battuti con un grosso bastone. Tanto profondamente aveva dormito, che tardò un istante a ricordare ove fosse.
Levatosi a sedere, vide davanti a sé uno strano essere il quale, ora, agitava furiosamente quel bastone, o piuttosto il lungo manico di un rastrello, e facendo udire suoni inarticolati — un mugolio che sembrava gonfiargli il collo e che ogni tanto si rompeva in note forti, acute o basse — mostrava di volerlo coprire di rimproveri. Questo essere aveva una grossa testa con funghi capelli d’un colore insolito, che in cima al cranio lasciavan vedere la cute rugginosa; le orecchie erano grandi, a ventola, il naso schiacciato, la bocca larga con denti rari e lunghi; un folto pelo, di qual medesimo colore rossiccio svanito, come di panno vecchio, gli nascondeva gran parte della faccia e del collo; dove pelle si vedeva, era tutta rughe, simile a cuoio anch’esso logoro. Tra rughe e pelle lucevano due piccoli occhi scuri con un’espressione di cinghiale inferocito. Gli indumenti di cui era vestito, significavano che si trattava d’un uomo: zoccolacci sporchi, un paio di calzoni fatti di toppe, camicia di flanella, panciotto unto. Ma il suo corpo sembrava assai fuor di posto in vesti umane; l’impressione era che celassero membra bruttamente pelose, giunture deformi, una carcassa animalesca. Non era bestia né diavolo né uomo ma qualcosa che riuniva insieme le tre nature.
Non cessava di mandar fuori quelle voci. Poggiato il rastrello al suolo, indicava con una mano il luogo, poi si toccava il petto, indicava il fieno, ammucchiato e calpestato, e si batteva la fronte come per disperazione, a far comprendere che il terreno era suo, il fieno pure, e che gli era stato recato un danno grave.
L’altro pensò: « Ecco l’uomo. È ricomparsa l’umana specie ». Considerava l’antagonista con attenzione: era quasi una bestia, una bestia di brutto aspetto e di selvatico carattere, non parlava, doveva sapere ben poco; ma questo lo sapeva, che quella terra e quel fieno erano roba sua. L’idiota, vedendo che le voci ed i gesti rimanevano senza effetto, nuovamente afferrò con due mani il rastrello dalla parte dei denti, lo alzò sopra l’invasore come per spaccargli la testa. E questi, nell’atto dell’uomo irsuto, vide riapparire l’istinto omicida dei tempi remoti nei quali la prima necessità per l’uomo di fronte ai proprii simili era di uccidere; fu lesto a scostarsi tanto da non essere raggiunto se il colpo venisse calato. Fatto cenno al padrone del fieno di calmarsi, trasse di tasca un pezzo da due lire, lo levò in aria tra due dita. L’idiota allungò la destra. Allora l’altro, ritirando la moneta, domandò a segni se a quel prezzo gli era permesso rimaner là e lasciare i sacchi dove si trovavano. La risposta fu affermativa. Messa la moneta nel taschino dopo aver guardato se era buona, l’uomo selvatico si allontanò alquanto incominciando a radunare il fieno.
Il forestiero si diceva che il compromesso per denaro è il fondamento di tutta la convivenza civile. Doveva aver dormito alcune ore, poiché il sole era scomparso dietro le montagne della neve e la luce obliqua che accendeva il cerchio delle alte rocce non toccava più il ripiano. « Ho incontrato un uomo dell’età della pietra. Tutti veniamo di là, da quel tempo ». Sempre quel silenzio: insieme al gorgogliare dell’acqua ora si udiva il fruscio del fieno rastrellato. Il forestiero provò il bisogno di rivedere la valle dalla quale era salito; dal bordo del ripiano andò a guardare nel gran vuoto.
* * *
Vide il paese, con la chiesa gli alberghi le case posati sulla stoffa dei prati; vide la strada con le automobili domenicali che vi correvano; sopra il fianco d’un monte, di là dal torrente, ritrovò i lunghi tubi di ferro di una condotta forzata ed il fabbricato della centrale elettrica ove terminavano; nel fondo della valle vide le torri d’acciaio della linea elettrica. E il campanile suonò le ore. Tutto ciò gli dava gioia come se veramente egli avesse dubitato che quel mondo, e la vita da cui era venuto, non esistessero più. Con l’immaginazione segui la strada, ne raggiunse altre più grandi e più lunghe, e poi le ferrovie, le città; pensò i velivoli che andavano diritti per il cielo dall’una all’altra; vide i porti, le navi in viaggio sui mari, le città grandissime sparse sul globo, e vide su tutta la terra la moltitudine umana. Anzi, vide e senti ciò che era adesso la vita, gran giro di cose e d’uomini, regolato, meccanico, movimento lavoro svago di folle, vita in folla, vita in colonne e ranghi. Il sentimento che provava, era forse impazienza d’esserne di nuovo preso, da quel girare della smisurata macchina. Sentiva di amare proprio quella vita, perché era così, perché era la vita del suo tempo.
Dai boschi dove i compagni erano scomparsi, venne una voce, quindi se ne udirono altre, che scendevano, e risate delle ragazze ma più rare. L’uomo delle caverne continuava a radunar il suo fieno, con l’impegno d’una grossa scimmia ammaestrata, senza badare più affatto all’estraneo né a quel che succedeva. Il forestiero tornò dal bordo dell’abisso sul pianoro, mandò un richiamo, per riunirsi agli altri un poco prima. Gli risposero i gridi acuti che si fanno in montagna per saluto.
Mario Sobrero.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 02.05.34

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Citazione: Mario Sobrero, “L’uomo delle caverne,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1570.