La tenzone del romanzo collettivo (dettagli)
Titolo: La tenzone del romanzo collettivo
Autore: Valentino Bompiani, Massimo Bontempelli
Data: 1934-05-09
Identificatore: 1934_221
Testo:
La tenzone
del romanzo collettivo
Diamo ancora una volta la parola a Valentino Bompiani, iniziatore della discussione, e a Massimo Bontempelli suo diretto e tenace contraddittore. Il Bompiani vorrebbe concludere; ma Bontempelli dice di no, e resta sulle sue posizioni.
Per concludere
Tante e così varie sono state le interpretazioni date al mio « Invito Editoriale al romanzo collettivo », che il lettore attento, più attento è stato, più ha diritto di non aver capito niente. (Ai Littoriali di Firenze qualcuno ha osservato: « Come mai Bontempelli avversa il romanzo collettivo, se egli stesso ha scritto un romanzo in collaborazione con altri nove scrittori? »).
Vediamo di orientare il lettore, schematizzando la polemica.
L’idea del romanzo collettivo, che da più tempo andava maturando, e recentemente aveva trovato autorevole voce, sotto il nome di romanzo sinfonico, in un articolo di Piero Gadda (« Nuove vie del romanzo», Domus, gennaio), esce decisamente di trincea (Gazzetta del Popolo, 14 marzo) con l’invito editoriale, non autorevole per il nome del firmatario, ma non trascurabile per la sua qualifica. Subito vorrebbero trattenerla le grida ammonitrici dei critici intransigenti (« l’arte quando è arte è arte, l’arte non può essere che del proprio tempo », tabù! ); ma essa avanza egualmente sul terreno polemico, perchè era nell’aria, e si scontra con l’equazione bontempelliana: collettivo = verista, verista = disfattista. Cadono sullo sbarramento politico le pattuglie di punta, che erano state scelte, volutamente, tra gli scrittori stranieri. Proust, Joyce, Doeblin, Dos Passos, Kästner e compagni, assolto il compito, per il quale erano stati chiamati in causa, di comprovare che il romanzo nell’ultimo trentennio ha subito un trauma, possono giacere più o meno mortalmente colpiti. Superato l’ostacolo, dimostrando arbitraria la prima parte dell’equazione e non temibile la seconda quando si tratti di verità italiana, l’idea procede e la polemica s’accende su tutto il fronte letterario della penisola.
Per avversare o sostenere l’invito, ciascuno ne ricostruisce l’idea centrale a suo modo. Così uno osserva, con un tentativo di involuzione polemica, che anche i grandi romanzi del passato possono ricondursi sotto la specie di romanzi collettivi; un altro crede che tutto si voglia riassumere in una formula taumaturgica: « Joyce + Proust con un pizzico di Dos Passos »; un terzo spiega ai suoi lettori che si tratta di romanzi da far scrivere ai medici; un quarto rivendica i diritti dell’amore nell’arte, non dimenticando la puntatina demografica. Ma tutti, in sostanza, muovono da un equivoco bifronte. Da un lato, il ritenere che il romanzo collettivo voglia far sua e imporre a modello una determinata tecnica narrativa, quel ch’è peggio importata dall'estero, laddove il richiamo a quella tecnica è stato fatto, e dichiaratamente, come prova tangibile di una comune tendenza verso forme nuove (nuove, s’intende, non nell’eternità, ma rispetto al tempo che immediatamente ci precede); e dall’altro, l’interpretare la parola collettivo come negazione dell’individuo e vioè del personaggio, staccandola dalla definizione che se n’è data: « Racconto di fatti collettivi, o proiezione sulla massa di fatti individuali, l'individuo in rapporto alla totalità, il personaggio nell'atmosfera, nelle passioni, nella vita del nostro tempo ». (A me... m’ha rovinato il « 18 BL », direbbe Petrolini).
Quando Moravia scrive che il « romanzo del futuro non sarà collettivo ma eroico, ossia concreterà in personaggi le correnti politiche dominanti », e che per conto suo ha fiducia « in un romanzo moralistico politico e magari filosofico, nel quale l’intreccio abbia un valore tendenzioso e allegorico... », quando scrive che « gioverebbe... rintracciare sotto questi movimenti di folle un dramma unitario spirituale che non può non esservi dissimulato » e che « gioverebbe, per esempio, rintracciare il motivo più'essenziale del Fascismo e concretarlo in un protagonista », proprio allora Moravia riempie i « collettivisti » di grandi speranze. Gli si può dire, sorridendo, come fa dire Pascarella al « servaggio »: « Ma guarda s’in che modo procedeveno — in America li c’erano nati e manco lo sapeveno ».
Ma Moravia nega che le masse siano il fatto nuovo del giorno, da lui ravvisato invece nell'« avvento trionfale di individualismi straordinari e rappresentativi » e cita a sostegno i giganti della politica, gli assi dello sport, del cinema, persino del delitto. S’è egli domandato se queste potenti individualità siano isolate e isolabili dalle masse che le hanno espresse e le sostengono? Non diventano esse « miti umani », come egli scrive, proprio e soltanto perchè, « personalità rappresentative dei problemi diffusi » (sue parole), sono vertici di gigantesche piramidi? Si avverte in Moravia che una sensibilità artistica già intuisce i caratteri distintivi del nostro tempo, che è tempo di civiltà verticale: autarchie, dittature, gerarchie.
Sbarazzato il campo dalle interpretazioni errate e evasive ci ritroviamo d’accordo in molti. Vediamo.
Titta Rosa, che esamina acutamente il problema in profondità ( « Domus », aprile), ci mostra come « la nostra letteratura giovane, che è uscita da poco da un periodo di autobiografismo » fu dapprima un’arte di « confessione, di riscoperta di se stessa », poi allargò il proprio moto entro una sfera più larga, « si propose in figure, in personaggi, in gruppi di personaggi, ai quali tuttora cerca d’affidare quella serietà, fermezza, concretezza di sentimenti che furono le sue virtù originali... E il romanzo collettivo? Sarebbe il momento ultimo della parabola? S’ha da intendere così se non si vuole che cotesta sia formula vana ».
Anche Bontempelli ha dichiarato che « andiamo, da tanti anni, tutti d’accordo invocando un'arte aderente al tempo». E ancora: Luigi Chiarini (Quadrivio): « Ben venga il romanzo che sia espressione di questa nostra umanità italiana e, quindi, anche della coscienza sociale e collettiva instaurata del Fascismo. Siamo tutti qua, editori, critici, lettori, ad attenderlo a braccia aperte ». E Medusa (Gazzetta del Mezzogiorno): « Si tratta di dover ritrovare soluzioni nuove del nostro tempo ai problemi che possono essere eterni e che possono essere solo del nostro tempo: ma dobbiamo sentirli e conoscerli: e gli autori si debbono avviare a una produzione od a una qualunque visione superiore diversa dal fatto di cronaca o dal tormento piccolo delle anime piccole». E Romeo Ricci (L’Ora): « Lasciate le ennesime descrizioni (si faceva a chi era più bravo) delle campagne, del mare, del cielo, dei laghi, dei venti, dei tramonti, delle albe, dei meriggi, i nuovi romanzieri guardano l’uomo della strada, dell’ufficio o dell’officina col suo corteggio di speranze o di dolori. Usciti dall’accademia e dall’arcadia, le cose e gli uomini si vedono con occhi nuovi... ». E Cantiere: « Occorre, per essere scrittori del nostro tempo, « avvertire » quei contrasti di sentimenti, di passioni che nascono su un terreno più vasto come, ad esempio, quello politico o sociale». E La Tribuna: « Non letteratura deleteria, ma ricostruttiva, ispirata al sentimento morale e politico del tempo che si vive ». E L'Avvenire d’Italia: « Bompiani oppone che egli parla di realtà: e questa è una necessità che di fronte all’autobiografismo, al puro lirismo, si invoca da molte parti. È una ragione sentita ». E Giuseppe Lombrassa (Il Resto del Carlino): «... il romanzo collettivo è salvo e raccomandabile perchè è precisamente quella letteratura di senso e spirito fascista. L’opera di un artista che rappresenti giustappunto la vita solidale del popolo italiano, quanto della vita di tutto un popolo è contenuto nell’individuo, risalendo dal particolare al generale, la consapevolezza che c’è in ogni uomo d’essere parte di un tutto, d’essere legato ai propri simili nell’ambito della Nazione, in vista di una mèta comune. Proprio così il romanzo collettivo potrebbe avere un'andatura di poema, perchè esprimerebbe il travaglio e la lotta di un popolo teso alla sua rinascita ».
Mi accorgo, mettendo per mio conto il punto fermo, d’essermi continuamente ripetuto. Mi ripeterò una volta di più.
Da un quarto di secolo le dimensioni dell'uomo in rapporto ai fenomeni esteriori sono diminuite. L’individuo esiste come risonanza tra altre risonanze. Questo è il nostro « collettivo ». Chi ne abbia voglia può controllare che gli scritti precedenti non contengono diversa dichiarazione.
Valentino Bompiani.
Per non concludere
Ho resistito eroicamente alle sollecitazioni che un poco da tutte le parti mi sono venute in queste settimane, perchè scrivessi qui una conclusione della cosiddetta polemica intorno al romanzo contemporaneo; quasi non si sapesse che tali polemiche sono per definizione inconclusive. Ho resistito con ostinata pazienza; ma ora che da due giorni più nessuno mi sollecita, non so quale nume mi spinge a prendere una volta ancora in mano la penna (o, come oggi si dice, sedermi una volta ancora davanti alla macchina: preferisco lasciare un dubbio ai lettori) per una osservazione, che potrebbe troncare tutta la discussione; e troncare è spesso il modo migliore di concludere.
Il chiodo fisso di tutti coloro che parlano di queste cose, è quello che si rivela chiaro nelle ultime parole dell’ultimo articolo di Bompiani, ov’egli parla delle « nuove necessità narrative ». E pare che tutti ci credano, mentre l'unica « necessità narrativa » di questo e degli altri tempi sarebbe quella di scrivere o di. leggere dei bei romanzi. Belli, vuol dire vivi.
Ora, dove nasce la « vita » di un romanzo? (o di qualunque opera d'arte? ). Non altrove che nel mistero individualissimo del suo autore.
Non so perchè non ci si ricordi mai di questo. Si. dice e si scrive e si disputa intorno all’argomento: « dove è diretto il romanzo italiano ». Questo è lo sbaglio formidabile. Non esiste il romanzo italiano di oggi, o di ieri, o di domani; esiste un certo numero di romanzi, ognuno per sé esistente. Parlare dell’opera d'arte come categoria, come aggruppamento, tale che le leggi di tutti i romanzi italiani (e magari mondiali) di un tempo siano le medesime, medesime le tendenze, il colore, il risultamento, ecc., è disconoscere che, tutte le volte che un'opera d’arte è vitale, tale sua vitalità è il frutto di caratteri che sono soltanto di essa opera, leggi che essa stessa con la propria esistenza ha imposto a sè e non possono più servire a nessun'aura. Tutto il rimanente, tutti i caratteri e le leggi e le strutture e le atmosfere ecc. che riescano comuni a essa e ad altre, sono leggi e caratteri secondari, sono il frutto di qualcosa che il poeta non ha saputo dominare e assorbire.
Certo, se un'opera nasce viva, ha dovuto nutrirsi del suo tempo: intendo, non di esteriori pretesti, ma di intime e profonde necessità proprie del tempo in cui è nata; ma appunto perchè si tratta di spiriti in profondità, il riconoscimento ne sta in un piano di sensitività, quale nessuna analisi critica potrà esprimere. Il nutrimento di contemporaneità è stato tutto assorbito e trasformato. La ragione per cui quell’opera è viva, non è in quel non rintracciabile nutrimento, ma sta tutta nella prepotenza individualissima con la quale il poeta lo ha trasformato e costretto a diventare cosa tutta sua propria, di lui poeta dominatore e legiferatore unico.
Per questo, le ragioni vere di un’opera d’arte (cioè le sole che ci interessino) sono imprevedibili. Appaiono, e diventano necessità assoluta, solo dall’istante in cui si attuano, in cui (per stare al caso nostro) il romanzo è scritto.
Altro che « riconoscere la direzione » in cui si muove « il » romanzo italiano di domani! In ogni momento del tempo, esiste una infinita varietà di direzioni ognuna delle quali può essere la buona. Domani, quando l’imprevedibile romanzo sarà apparso, sarà compito dello storico segnalare quale è stata, nel groviglio, la linea che la genialità del creatore ha (spesso senza averne nessuna coscienza) seguita. La letteratura del duecento non era diretta verso la Commedia; la letteratura del primo Ottocento non era diretta verso i Canti; la letteratura: del secondo Ottocento non era diretta verso I Malavoglia. Le « direzioni » sono il frutto di uno sforzo critico a posteriori, costruzioni speculatice di natura eminentemente critica cioè storica; e non si scrive la storia del futuro.
C’è, sì, una critica d’indole insegnativa, ma questa non può essere che negativa: di fronte a mode lente a esaurirsi, essa può indicare quel che in esse s’indugia di fastidiosamente vecchio; può insegnare a non confondere il petrarchismo col Petrarca. Ma essa si rivolge piuttosto ai lettori che non agli autori. E si esercita sull'opera deteriore del tempo piuttosto che sulla più rappresentativa.
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Potrebbe esercitarsi sulla più rappresentativa, se sapesse riconoscerla.
Ma questo credo sia un caso rarissimo. Non so se si sia dato mai. Non lo credo. Appunto perchè in questo riconoscimento han luogo le facoltà più istintive e non riducibili a raziocinamenti, accade che un’opera viva è riconosciuta prima dal pubblico che non dalla critica. E non parlo del pubblico immediato, quello che talora dà a un’opera o a un autore un rapido e vasto successo. Parlo di un pubblico che attorno all’opera e all’autore veramente espressivi si viene formando lentamente, nell'ombra, nel silenzio, in piena indipendenza anzi sempre in contradizione con le indicazioni dei competentuti. Quando questo pubblico si è ampliato, quando questa intelligenza istintiva dell’opera si è fatta chiara, e per la vastità del consenso fatta più facile (può darsi che intanto l’autore sia morto o rincorbellito ma questo non ha importanza) allora arrivano i competentuti e fanno la storia della direzione da cui è nata l’opera, dalle sue scaturigini materiali e spirituali, ecc.
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Stando le cose a questo modo, vedete quanto è ridicolo assegnare i temi e i modi ai poeti, e sicumerare quale sarà il romanzo di domani.
Quando s’è fatta la discussione sul romanzo « collettivo », qualche umorista ha mostrato di prendere la parola nel suo senso materiale, e di credere si trattasse di romanzi da scrivere in collaborazione da tanti autori.
Eppure la cosa è proprio così. Critici, editori, divulgatori, mostrano di credere che il romanzo di domani sarà il frutto di una vasta collaborazione: consigli forniti dall'editore A., avvertimenti ammanniti dal critico B., istruzioni impartite dal gerarca politico C., e in fondo alla serie l'autore.
Massimo Bontempelli.
Collezione: Diorama 09.05.34
Etichette: Massimo Bontempelli, Valentino Bompiani
Citazione: Valentino Bompiani e Massimo Bontempelli, “La tenzone del romanzo collettivo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1586.