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Titolo: A motore spento

Autore: Massimo Bontempelli

Data: 1934-05-30

Identificatore: 1934_245

Testo: A motore spento
Se ripenso con spirito di semplificazione, e mi ritraggo a guardare un po’ da lontano, la letteratura di tutto il mondo dalla fine del secolo scorso a oggi, qualche volta provo chiara l’impressione che l’arte della parola sia esaurita: una storia finita (come è senz’altro una storia finita il teatro).
In Italia il secolo si chiudeva sopra la tanto citata triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, e sopra Verga. Fuori d’Italia conchiudeva con nomi rapidamente diventati europei, quali Dostoiewski, Ibsen, e scendiamo fino a Zola, e se vogliamo esagerare mettiamoci perfino Anatole France.
La letteratura (in tutta Europa) che ha seguito questi nomi, spesso ci interessa più di parecchi di essi. Eppure la sentiamo minore, anche in confronto di quelli tra i citati che meno sentiamo e amiamo.
Ammetto che abbiamo avuto lirici più sensitivi e puri di Carducci, indagatori e descrittori di stati d’animo e di costume più intelligenti e sottili di Zola, e magari di Balzac, e via discorrendo. Ma se anche cinque o sei scrittori del periodo 1901-1930 interessano la nostra intelligenza e il nostro gusto più dei maggiori del mezzo secolo che ci ha preceduti, sùbito sentiamo, al solo pronunciare i nomi degli uni e i nomi degli altri, quanto ognuno di quelli là occupava più spazio di tutti questi messi assieme.
Il fenomeno andrebbe studiato.
Non ci si deve accontentare di dire — come fanno i più grossolani nostalgici — che quelli erano personalmente più grandi mentre oggi non si hanno che dei minori: sarebbe ripetere con altre parole la parte meno interessante del fatto; noi vorremmo spiegarci come i nostri non riescano a essere che dei minori, quando in parecchi d’essi, e in tutta l’epoca che li circonda, dobbiamo riconoscere in generale una più addestrata intelligenza, una più solida coscienza, una sensitività artistica più perfetta.
E il fenomeno procede. Se è certo che nella mia generazione siamo tutti, con una maggior purezza di visione poetica, dei minori di fronte a quelli che immediatamente ci hanno preceduti, il simile accade di coloro che appartengono alla generazione dopo la nostra: han segnato tutti un altro gran passo indietro nei nostri confronti.
Il fenomeno va guardato più dall’alto, e con criteri più generali.
Mettendoci a qualche distanza, forse finiremo con renderci conto che il nostro tempo sta rapidamente liquidando la « paiola » come strumento di espressione e costruzione artistica.
Col secolo scorso, già la parola era diventata qualche cosa di diafano (esempio Mallarmé), oppure s’era fatta puro lampeggiamento di colore (esempio D’Annunzio). Tanto di considerazione e di potenza aveva acquistato per se stessa, che aveva finito con disinteressarsi delle cose, al cui servigio era nei secoli stata sottoposta.
Quando dico « cose », dico in senso strettamente artistico. Non rimetto certo sul tappeto la questione forma-sostanza, che è una questione fondamentalmente balorda. Anche chi crede di scrivere non « per parole » ma « per cose », con la scelta, la presentazione, il taglio, il montaggio di esse cose, viene a costituire un valore di natura formale, che nell’atto stesso che si foggia diviene per il rispetto artistico un valore sostanziale.
La questione è piuttosto di psicologia che non di estetica.
Lo scrittore, che un tempo si serviva del vocabolario come di una tastiera, delle parole come servi pronti, a un certo punto s’è accorto ch’esse parole erano diventate organismi vivi, dotati di una loro prepotenza, anelanti a una autonomia.
È cominciata allora una lotta, talvolta aperta talvolta subdola, tra l’uomo e la parola.
La lotta è stata aperta, quando s’è cominciato a dichiarare l'orrore dell’aggettivo, la tendenza al nudo anzi allo scheletrico, la rapidità superiore alla ricchezza, l’immediatezza unico mezzo e supremo fine.
La lotta è stata subdola, quando l’uomo ha mostrato di accettare l’autonomia della parola, e le ha dichiarato ch’essa non doveva più avere alcun « significato », in quanto significato comporta dipendenza; e cosi l'ha portata rapidamente a rarefarsi, eterizzarsi, confondersi col vuoto, col niente.
O
Dal totale di queste battaglie, risse, scherme, dissidi, è risultato quel senso di minore, di inane, di provvisorio, che qualche volta ci spaventa se consideriamo in assieme il quadro della letteratura mondiale degli ultimi venti o trent’anni a confronto con quella che la precedette: lo sgomento che ci prende se proviamo a dir forte i nomi.
O
La verità sta più su, sta al di sopra della letteratura. Riguarda tutte le arti, tutta l’arte.
La verità è, che oggi, in tutti i campi dell’arte, andiamo avanti a motore spento. Andiamo avanti per forza d’inerzia. Andiamo avanti sfruttando i residui d’energia d’una grande epoca finita: l’epoca romantica; diciannove secoli, dall’avvento del Cristianesimo alla Guerra Europea.
Tutti i segni concordano, i grandi e i piccoli.
Questo ottuso movimento per spingere i narratori alla creazione di un romanzo in serie, a tipo unico, è chiaro movimento di gente che è uscita del tutto dall’arte: è una rinuncia alla narrazione.
E l’indicare a questo tipico romanzo la funzione strettamente documentaria della giornata, è una incosciente ma chiarissima rinuncia a tutte le necessità e a tutti i caratteri definitivi del narrare artistico; una incosciente ma netta rinuncia al poema. Perché uno dei caratteri della poesia è proprio il contrario di quel che loro pretendono: è una smania di evasione dal presente.
C’è chi dice che la forma suprema dell’arte della parola è la lirica. E imperversano le dizioni di poesia, e i concorsi di poesia, come nel più imbecille arcadismo del settecento. Ma la lirica è fondamentalmente solitudine. Questa rinuncia alla solitudine, è rinuncia alla lirica.
I segni son mille. Perché della gente stanca e delusa di non aver trovato la parola nuova, cioè sua (qui penso soprattutto a un certo numero di pittori) s’è rimessa a pitturare come i professori d’accademia della fine dell’Ottocento, ecco una gazzarra di criticheria a gridare vittoria vittoria, abbiamo ritrovato la vecchia forma. Invece l’arte ha per natura fondamentale di non ritrovare mai, di inventare continuamente la forma nuova. Quella gazzarra è una balorda e chiara rinuncia alla pittura.
In tutto il campo dell’arte, la parola d’ordine è una sola: la « paura dello strano ». Invece tutte le volte che, in tutti i tempi, in tutte le arti, s’è fatto qualche cosa di buono, sulle prime è apparso una stramberia. Questo trepido feticismo del normale. quale più chiara rinuncia alla poesia? «
I soli che non hanno rinunciato, sono gli architetti. Perché hanno cominciato da capo, si son messi a costruire come se la necessità di edificare fosse nata ora, e così han trovato una loro naturalezza, una loro verginità, una loro primordialità: tutte condizioni fondamentali per la creazione artistica.
(L’equivalente letterario della nuova architettura dovrebbe essere — come vo tempestando ormai da quattordici anni — la invenzione di nuovi miti, di favole fresche, da servire alia sete di immaginazione della nuova epoca, la Terza Epoca della umanità d’occidente. L’equivalente nella pittura e scultura, non lo so. L’equivalente musicale potrebbe avere avuto un primo segno nel rinnovamento della musica di danza).
Massimo Bontempelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.05.34

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Citazione: Massimo Bontempelli, “A motore spento,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 12 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1610.