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Titolo: L'epistolario di Renato Serra

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1934-06-13

Identificatore: 1934_265

Testo: L’epistolario di Renato Serra
Di Renato Serra ci stanno presenti le parole che leggemmo due o tre anni fa in una rivista, dirette ad Alfredo Panzini. Parole d’un morto, tolte da una lettera del 1914. Erano i mesi torbidi delle logomachie neutralistiche, mentre la disperazione montava al cuore di coloro che sapevano che « c'era un minuto per noi » e non bisognava lasciarlo passare. Il Serra scrive al Panzini « con un’affezione tumultuosa dell’animo, avvezzo oramai a sentire soltanto dei professori che ci rifanno le lezioni di cui non abbiamo nessun bisogno, e Benedetto Croce che dichiara col suo sorriso tranquillo che lui, come filosofo, sa con certezza che l’esito di questa guerra, qualunque sia, sarà il più gran bene per il progresso e per l’umanità, e non parliamo degli altri, anche i migliori... Una parola mia lei ha raccolto, in un modo che oggi mi commuove a risentire: — non ho ancora perso la speranza. No, non la voglio perdere!... E Mussolini? E il resto?... ». Lettera della vigilia febbrile. Poi, nell'Esame di coscienza di un letterato, l'ultima mirabile pagina pacata: «Laggiù in città si parla ancora forse di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo... Ma io vivo in un altro luogo. In quell'Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto, ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perchè: se venga l’ora... Tutto il mio essere è un fremito di speranze, a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo... Il presente mi basta; non voglio nè vedere nè vìvere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perchè dovrei darti un dispiacere? lo sono contento, oggi ».
Il testamento e l'atto di fede della sua generazione Serra lo scrisse cosi, preparandosi a testimoniare col sacrificio l’urgenza del superamento della crisi morale che la travagliava. « Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli... ».
Di questo stato d’animo e delle sue reazioni riboccano le lettere di Serra dell’ultimo periodo; le altre sono d’una lucidissima mente, d’un letterato e critico di tempra umanistica, e discorrono di lettere, di libri, di scrittori, di movimenti d’idee, sempre con un tono personale e un gusto distinto; le ultime mostrano come repugnando sempre alla formola del « letterato puro » il Serra passasse, nel punto cruciale della Storia italiana, a ben altra formola e quanto i superamenti della mischia alla maniera rollandiana fossero lontani dal suo spirito e dal suo desiderio di vita.
Ma l'Epistolario di Renato Serra che oggi vede finalmente la luce in un volume di 600 pagine (editore F. Le Monnier, Firenze 1934 - L. 25) è, oltre che un commentario etico ed estetico che s’adegua ai caratteri del periodo abbracciante all’ingrosso i primi quindici anni del secolo, una cronaca letteraria in potenza che fornirà elementi preziosi allo storico futuro. La fatica per l’ordinamento e l’illustrazione dell’Epistolario non è stata lieve: vi cooperarono Luigi Ambrosini e Giuseppe de Robertis; e, morto l’Ambrosini, Alfredo Grilli, il quale s'assunse il difficile incarico di annotare le lettere all’Ambrosini riguardanti il periodo più oscuro della vita del Serra. Fu questo, del resto, il terzetto dei più vicini al caduto del Podgora; coi quali egli si confidò fraternamente in ogni momento della sua vita, prima con l’Ambrosini e col Grilli, poi, dal tempo della Voce, col De Robertis. Le altre lettere, a parte quelle alla madre (bellissime certe « cartoline » alla madre che formano nel volume corpo a sè e che danno luce siderea alle ultime pagine: l’estrema, del 20 luglio 1915, fu scritta poche ore prima della morte gloriosa), sono dirette ad uomini rappresentativi del pensiero e della cultura primo novecento, Croce e Papini, Prezzolini e Linati, Panzini e Cecchi, Armando Carlini ed Emilio Lovarini.
L’amicizia con l’Ambrosini gli aveva dato familiarità, pur dalla lontana Cesena, con gli ambienti letterari torinesi. A Torino, anzi, il Renier aveva accettato, per il tramite del prof. Lovarini, di pubblicare nel Giornale storico della Letteratura un articolo dantesco del Serra; e l’Ambrosini lo sollecitava a collaborare al Campo, settimanale ispirato da Francesco Pastonchi e diretto da Mario Vaccarino: durò poco più di un anno e l’Ambrosini, ancora studente universitario, vi faceva le sue prime prove. In una lettera del gennaio 1905 il Serra espone all’amico alcune idee su Kipling che servirono all’Ambrosini per un lungo articolo di cinque colonne sullo scrittore inglese. « Questo argomento — notano i compilatori dell’Epistolario, e la nota è forse dello stesso Ambrosini — era caro al Serra e lo riprenderà più tardi. Ma egli era gran signore, e prodigo del suo con gli amici, mentre proclamava poi di non aver egli nessuna attitudine particolare al lavoro dell’arte ».
A Torino il Serra si trasferì nel 1907, ma vi durò un mese: tornò a Cesena, e alla fine dell’anno si recò a Firenze per frequentare l’Istituto di Studi Superiori. Aveva dato qualche cosetta a un’altra rivista letteraria torinese, Il Vaglio, che si pubblicava in fascicoli bimestrali tra il 1906 e il 1908, ma era lento a scrivere, sempre scontento di ciò che scriveva, alieno dall’affiancarsi a gruppi e gruppetti. Faceva parte da solo, pur senza avere il mondo in dispetto: chè le lettere mostrano di che ricca sostanza umana egli fosse. A rimuoverlo da Cesena, dove era ritornato dopo la parentesi fiorentina, manco pensarci. L’Ambrosini avrebbe voluto toglierlo dalla provincia, avvicinarlo ai grandi giornali, metterlo in vista perchè lavorasse e parlasse al pubblico vasto. A Firenze era intanto cominciata l’attività della Voce e Prezzolini aveva invitato il Serra a collaborarvi. Anche il Marzocco lo aveva invitato. « Io non voglio fare il letterato » rispondeva. E il « suo » continuava a dispensarlo da gran signore nelle lettere agli amici, sostenendoli, aiutandoli, suggerendo, proponendo. Alcune lettere sono veri « canovacci » di articoli e saggi che gli altri avrebbero poi fatto. L’Ambrosini aveva intanto iniziato nella Voce, a firma Cepperello, una serie di articoli sul giornalismo italiano, cominciando da quello piemontese. V’eran passati la Gazzetta del Popolo, la Stampa, il Momento, e poi il giornalismo lombardo col Corriere della Sera in testa e con la « famiglia del Corriere », cioè con le pubblicazioni periodiche dipendenti. Al Serra l’impostazione generale degli articoli piace; non gli piace il tono: « Vuoi che ti dica che per il pubblico grosso un articolo di quel tono, in un giornaletto che ha l’aria - così pettegola e astiosa come la Voce, fa un po’ l’effetto di uno sfogo di agrume? Regola generale: operate e scrivete sempre in modo che non sia possibile la risposta ad hominem. E poi il luogo fa anche il tono delle cose che si dicono. Ojetti, per esempio, se si curerà di risponderti su una mezza colonna del Corriere, « Caro signore, provi anche lei a diventare un giornalista vero, aspetti di avere un numero di lettori, un guadagno ai suoi articoli sufficiente », tu vedrai come suoneranno diverso le sue parole dalle tue!... La lezione fatta al successo in nome dell’onestà, della dignità spirituale ecc. ecc. ha sempre qualche cattivo gusto». Seguono gli altri articoli, ancora sui collaboratori della Stampa, Thovez, Bergeret, Borgese, e il Serra continua a fornire all’amico più d’uno spunto. In una lettera dell’aprile 1909 il Serra stende l’abbozzo d’uno « scenario » sul Giornale d’Italia dal quale l’Ambrosini trasse argomento per due articoli cepperelleschi; il magno organo romano, i suoi redattori e collaboratori principali il Serra glieli aveva messi a fuoco bene, con pochi segni da ritratto, richiamando intanto l’amico, al di qua della linea strettamente stroncatoria, ad una serena valutazione degli uomini nei loro difetti e nelle loro qualità. Ma in tutto l’Epistolario, è viva la presenza d’un uomo alla scoperta di uomini, d’un alto carattere morale e d’un ingegno tra i più nobili.
oggi Renato Serra sarebbe sui cinquant’anni. Mori precocemente; e ando a morire rifatto semplice e puro come nella sua infanzia, dopo aver lasciato in nome di tutti quelli della sua generazione che con lui abbandonarono i libri per la trincea una testimonianza di equilibrio e di coerenza nell'Esame. Gli editori dell’ Epistolario promettono di raccogliere, dentro quest'anno, quel che rimane del Serra, gli altri suoi scritti, editi ed inediti. L’Epistolario ne è la premessa, non raccolta di bella prosa soltanto, sibbene la storia della vita di Renato Serra in tutta la sua verità nuda; contribuendo, come avvertono i compilatori, « proprio per effetto delle notizie più piane, prosaiche, indifferenti, alla varietà della lettura ed al risalto di certe pagine superbissime ».
Lorenzo Gigli.
Renato Serra

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.06.34

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Citazione: Lorenzo Gigli, “L'epistolario di Renato Serra,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1630.