Disco sul ghiaccio (dettagli)
Titolo: Disco sul ghiaccio
Autore: Adriano Grego
Data: 1934-08-15
Identificatore: 1934_339
Testo:
Disco sul ghiaccio
Si lasciò cadere sulla poltrona, come sempre, con pesantezza: perché era stanco quando tornava a casa dopo il lavoro del cantiere e perché difficilmente avrebbe rinunciato alla civetteria di mostrarsi ai suoi familiari spossato dalla fatica.
Gli piaceva che la moglie gli chiedesse qualche notizia dell'ufficio, e quando la domanda mancava, provava dentro di sé un rovello, una specie di rancore, perché quello era il segno che in casa sua nessuno si occupava di lui, di lui che faticava tutto il giorno. « che tirava la carretta », che sfacchinava come un negro dall'età di diciott'anni.
— Molto lavoro, Gianni? Sei contento dei nuovi manovali?
Il lievissimo epidermico piacere provocato da quella domanda — un segno d’interessamento, infine — fu subito sopraffatto dalla molestia che quella voce gli dava. Non perché avesse odio o antipatia per la sua donna, ma perché dopo ventitré anni di matrimonio quella voce era diventata come la testimonianza fonica dei suoi impegni quotidiani. La bolletta del gas, la cartella delle imposte, il conto per lo scaldabagno rotto, le nuove tasse universitarie, lo « smoking » per Pietro... tutto gli veniva esibito attraverso quella voce immutabilmente dolce.
Perciò rispose con un grugnito. « Che cosa capiscono le donne del nostro lavoro? Niente. E i ragazzi meno ancora di loro — pensò. — I ragazzi d’adesso non hanno sentimento. Non hanno niente. Pietro, quando gli ho detto domenica scorsa che non gli avrei fatto fare lo « smoking », mi ha guardato come un nemico. Un nemico. Gli tremava il mento. Aveva gli occhi di un tigrotto. Eccoli, come sono i ragazzi! E pensare che soltanto tre anni fa mi chiamava ancora «babbetto». Ora ha vergogna di chiamarmi « babbetto ». E po' non studia come dovrebbe! E poi ha le grandi idee che gli frullano nel cranio. E poi non li capisce, no, i sacrifici che si fanno per lui. E poi, dove è adesso? Che non sia ancora a casa? ».
— Dove è Pietro?
La domanda che la donna attendeva col fiato già grosso dall’ansia, risuonò nel silenzio della camera, come una imminente avvisaglia di tuòno.
— Dov’è?
— Aveva una partita d’allenamento.
— Di nuovo? E non poteva avvertire? Anarchia eh? Ognuno fa il comodo suo qui dentro. E va bene... va bene...
Mentre parlava, mentre udiva le parole della moglie che tentavano di placare il suo malumore, sentiva dentro di sé crescere a valanga il corruccio verso il ragazzo lontano. Lontane ragioni di dissenso, sepolte inquietudini, riaffioravano all’improvviso con violenza. Il ragazzo batteva una strada falsa. Il ragazzo era cattivo. Dov’era il ragazzo? Perché non era qui, a pranzare a casa sua? Perché non stava la sera con sua madre? E almeno fosse andato a divertirsi come lui, quand’aveva vent’anni. « Ma no! Pietro ha l’animo del gaudentino da salotto. Gli piace la gente ricca, la gente blasonata, la « crème», l’imbecillità in livrea. Gioca a « hockey » soltanto perché è un gioco da signori. E poi, quando c’è da andare in Svizzera, a Davos, a Saint Moritz, allora si rivolge a sua madre perché io sborsi i quattrini. E il vecchio imbecille paga. Lavora e paga. Avevo fatto bene quando gli avevo vietato di giocare ancora. Ognuno deve fare quello che i suoi mezzi gli consentono e non di più. È mio dovere impedire che gli montino la testa, al ragazzo. È povero e deve stare co' poveri. Bestia sono stato io quando l’ho lasciato partire colla squadra. Ma ora basta, per Dio! Il padrone sono io e comando io. E guai se qualcuno cerca di fare il furbo ».
Si era rivolto alla moglie con aria minacciosa e le aveva chiesto:
— Tu sei sicura, nevvero, che gli faccia bene vivere in quell’ambiente? Tu ce l'hai la testa sul collo? E se si rompe una gamba?
Le solite domande a catena, aggressive, guidate dalla logica sbilenca del malumore. Le solite domande colleriche con cui inconsciamente rimproverava il buon Dio per tutte le astinenze e i sacrifici a cui si era dovuto sottoporre dall’età della ragione. Poi, si va a dormire coll’animo avvelenato e ci si rifugia in un angolo del letto. È la solitudine degli uomini che non vivono soli.
* * *
Ma quella sera la scenata non ebbe l’abituale conclusione. Si alzò da tavola iroso, sbattè la porta di casa, uscì senza saper dove andare. Poi, appena in strada, l’uggia della strada lo prese. Le rotaie lùcide sotto i fanali, lo scampanare nervoso dei conducenti dei tram, un grassone che esce dal ristorante, lucido e sazio, collo stecchino all’angolo della bocca, il suono imbecille d’una radio, tante insegne luminose, un torsolo di uomo fermò sui due piedi che dice in un crocchio « ora vi faccio ridere », il richiamo d’un cinematografo: « se siete scontenti ditelo a noi, se siete contenti ditelo agli altri », un caldarrostaio, un vigile dai gesti ieratici. Basta. Le strade, le case sono tutte eguali. Dove vado? Ritornare, no. A un cinema, solo, mi dispiace. C’è tanta gente. A un caffè c’è tanta gente. Dove vado?
Se ne sta in un angolo, col bavero alzato, perché il freddo è intenso e perché sulle gradinate la gente è scarsa: così ha timore d’essere riconosciuto. Ma chi s’accorge di lui? Quelle poche centinaia di persone affacciate alla balaustra, tutt’intorno al campo di ghiaccio, non si occupano che delle vicende del gioco. Urlano, si agitano, si alzano, si gettano in viso dei fiati che sembrano nubi biancastre, si afferrano colle mani al cerchio d’ottone della ringhiera. E dov’è Pietro? Eccolo vicino alla minuscola porta, piegato sulla mazza ricurva, pronto all’attacco. Il disco nero scivola sul ghiaccio o vola a mezz’aria come una saetta. Arriva da questa parte. Un passaggio. Un capitombolo. Ecco Pietro... « è proprio, lui... sembra due volte più alto... come riesce a non cadere, correndo a quel modo sur pattini?... assomiglia più a me che a sua madre... ahi!... attento che ti viene addosso quel bolide coi capelli rossi... bravo, Pietro!... ». Una schivata... e via a zig-zag col disco che sembra legato alla mazza... Uno scontro... ancora in piedi... Ora sono due che lottano e finiscono lanciati contro il fondo del campo, dietro la porta avversaria. Si rialzano insieme e sembra un miracolo che abbiano ancora le ossa intatte. La partita non dà requie a nessuno. I giocatori s’inseguono sul campo con una strana ferocia. S’accendono furiose le mischie, intorno alle porte, difese da due grotteschi giganti che sembrano guerrieri medievali sotto la neve.
Di nuovo il disco è a Pietro. Perché l’ha perduto? « Vorrei che vincesse lui per la sua squadra. In fondo è proprio un bel ragazzo. Sua madre ha le gambe corte. Lui ha le gambe lunghe e dunque assomiglia più a me che a sua madre. Ahi! Attento, Pietro!... È un gioco da batticuore questo... Bel passaggio... Stupido! Cretino! Villanzone! Somaro! Cafonaccio! È modo questo? ».
Si rivolge ai vicini perché trova che la carica è stata irregolare. « Lo dica lei? Ma è permesso questo? ». E piova un piacere animale, una strana gioia primitiva, quando il suo compagno di destra gli dà ragione e sentenzia: « Un arbitro canadese lo avrebbe espulso ».
E tutto il pubblico ha rumoreggiato perché, porca miseria, non è lecito caricare in quel modo un giocatore che si chiama Pietro...
* * *
Ora si rialza il bavero del cappotto che gli era scivolato giù. Esce rapido dal palazzo del ghiaccio, prima degli altri. « I figli... in fondo, a pensarci bene, i figli son la sola cosa che rendono meno schifa questa vitaccia ».
Adriano Grego.
Collezione: Diorama 15.08.34
Etichette: Adriano Grego
Citazione: Adriano Grego, “Disco sul ghiaccio,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1704.