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Titolo: Senza scarpe

Autore: Adriano Grego

Data: 1934-10-03

Identificatore: 1934_398

Testo: Senza scarpe
Per capire gli uomini bene bisogna guardarli mentre si levano le scarpe. Davvero. Solo allora si capisce com’è fatto uno di dentro e perché è fatto così, e se proprio è senza misericordia come dice la gente.
In realtà quell’uomo pareva — ed era, perbacco — del tutto sfornito di misericordia.
Affabile nel gesto e nella parola, ma duro, spietato, talvolta cattivo, negli atti. Uno di quegli uomini che non hanno né la iattanza della loro durezza, né alcuna di quelle forme di pigrizia, né alcuna di quelle pause, che rendono accessibili talvolta anche i caratteri più difesi. Minuto per minuto viveva come se da lui solo fosse dipeso il bene di una collettività in pericolo, come se invece che a capo di una fiorente azienda commerciale il destino l’avesse preposto a una misteriosa concentrazione d’interessi.
Lo vidi alcune volte mentre dettava al segretario delle lettere. Si pentiva d’una parola, ne cercava un’altra. Trovatala, la pronunciava con la medesima fermezza e certezza con cui un legislatore fissa una inderogabile regola civile. Poteva trattarsi, invece, d’un termine di pagamento per una partita di cotoni. Ma quando, alcuni giorni dopo, egli riteneva utile rettificare il termine, ritrovava lo stesso tono perentorio, la Stessa sicurezza di prima.
Solo una volta, da quando lo conosco, lo udii formulare un principio, e ancora me ne rammento perché la frase era crudele, e m’apparve strano in un uomo come lui che usava la cattiveria senza esibirla. Vedo ancora la scena. Il fattorino che piangeva, torcendosi, e si toccava convulsamente le tasche, una dopo l’altra, e poi ricominciava da capo e ripeteva le stesse parole inutili che aveva già detto varie volte.
« Le ho messe qui... Qui a destra dove le metto sempre... Mai una volta in dieci anni che abbia perduto uno spillo... Possono dirlo tutti... Sono salito sul tram e le avevo ancora... Ho fatto tutto il percorso in piedi colla mano appoggiata qui... sono arrivato all’ufficio delle Imposte... ho fatto la coda... le giuro, le giuro sugli occhi del mio bambino che non ho parlato con nessuno... ho portato delle cifre enormi... lei lo sa... mai nemmeno uno spillo... ».
Bisognava sentirla, la voce. Bisognava vederlo, l’uomo. Era alto, abbronzato, con una testa un po’ piccola piantata Su due spallacce da negro. La bocca storta, le mani enormi da badilante. E vederlo piegarsi in due, vederlo così senza forza, e la faccia spavalda congestionata dall’ansia, e quegli occhi diventati acquosi e quell’aria smarrita da poveretto di Dio... davvero, vederlo rosi, si sentiva la voglia di mettergli la mano sulla spalla e di chiamarlo per nome: « Su andiamo... coraggio, ... ché a tutto c’è rimedio ». Invece, l'altro, non lo chiamò per nome. Gli diede del « voi » e lo guardò negli occhi tranquillamente:
« Sentite: gli impiegati asini non mi piacciono. Ma gli impiegati disgraziati non li voglio. Potete andare ».
E tornò alla sua scrivania. Fu quella, forse, l’unica volta in cui mi parve si vantasse un poco d’esser senza misericordia. Ma sempre, in tutte le altre occasioni, vidi la sua cattiveria manifestarsi in perfetta atmosfera di quiete. E lo vidi passare in mezzo al rancore e all’odio dei colleghi e dei dipendenti, con quella sua ispirata certezza, che mi è sempre apparsa come un gran dono sprecato.
• • •
Poi un giorno mi accadde di scoprire in quest’uomo una specie di doppio fondo. Cioè, no. Forse mi spiego male. Scoprii in lui soltanto una specie di sedimento doloroso, una antica lesione calcificata che poteva servire, da base alla sua cattiveria di adulto.
Capite? Come se quello che l’uomo è adesso fosse il frutto di una faticosa reazione. Ecco: uno che una volta si ubriacava tutte le notti, e ora si rifiuta di sorseggiare anche un bicchiere di aleatico.
A proposito di vino: io penso che quella notte fu proprio colpa o merito del vino se l’uomo si mise a « cantare ». Eravamo soli, in una città straniera Incontratici per caso in albergo s’era finito col perlustrare insieme gli angoli più sordidi della città e col rifugiarci più tardi in camera mia, affratellati dal desiderio di fingerci allegri ad ogni costo. In lui, poi, uomo severo e gelido, influiva non poco il pensiero d’esser lontano da casa. Sapete: come i ragazzi quando in assenza del professore scrivono sulla lavagna delle sciocchezze:
cinque, quattro, tre, due, uno con l'avanzo di nessuno.
La matematica è una gran bella cosa.
Insomma, a un certo punto, colla testa che penzolava da un bracciolo della poltrona e le gambe sul letto, mi raccontò com’era lui da ragazzo quando traduceva « De Amicitia ». Un debole? Macché un debole! Una patata molle. Quando suo padre alzava la voce in casa, il primo a tre mare era lui. E il padre era davvero una canaglia. Sperperatore, disordinato, domiamolo, proprio la maschera classica dell'uomo sviato. S’era incapricciato d’una sua segretaria e la portava in casa, la faceva sedere al suo tavolo vicino alla moglie, pretendeva che tutti avessero dei sorrisi da regalarle.
« Una canaglia, le dico. E io non ero capace di far nulla. Impallidivo, tremavo, sognavo di notte delle terribili vendette da compiere. Ma poi, al chiaro, quando era l’ora del caffè e latte ricominciavo ad aver paura di lui. Picchiarmi? Ma nemmeno per burla. Bastava che mi guardasse. Bastava che aggrottasse le ciglia. Io diventavo la sua vittima più di quanto non lo fosse mia madre.
« Capisce, caro amico? Tutta l’infanzia, tutta l’adolescenza con questo « ba-bau » vivente e onnipresente. E dentro di me, più forte di tutto, lo spasimo d’essere debole, di non sapermi ribellare, di sentirmi legato alla catena. La sera, a volte, origliavo alle porte per sentire le sue scenate terribili con mia madre, quando rincasava: lo vedo come se fosse adesso, coi passi pesanti, la faccia stravolta, la bocca che si torceva agli improvvisi rigurgiti, l’aria cattiva. Io mi guardavo allo specchio, a volte, e mi confrontavo con lui. Lui era razza lupo e io ero razza pecora. Basta. È stupefacente come le malattie dell’infanzia lascino poca traccia negli adulti. Non crede lei? Certo che da bambini si soffre molto. Moltissimo. Non c’è uomo che possa soffrire quello che può soffrire un bimbo. Animo! Non prova desiderio anche lei di levarsi le scarpe? ».
E si levò davvero le scarpe, con un gesto stanco, un povero gesto stanco di uomo che ha tanto camminato.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 03.10.34

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Citazione: Adriano Grego, “Senza scarpe,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1763.