Fantasie veneziane: Fine della festa (dettagli)
Titolo: Fantasie veneziane: Fine della festa
Autore: Diego Valeri
Data: 1934-11-28
Identificatore: 1934_490
Testo:
Fantasie
veneziane
Fine della festa
Sono giorni torbidi e inquieti, gravati da immensi volumi di nuvole nerastre che attraversano lentamente il cielo e mai non se ne vanno; notti agitate da improvvise scorrerie di venti dispersi che urtano le imposte e fan tintinnare lungamente i vetri. Ogni tanto, un rovescio di pioggia, un lampo vago, un rombo soffocato di tuono lontano.
Dice qualcuno: pare marzo; ma sùbito avverte più nettamente, per contrasto, la cupezza, l’affanno febbrile, la tensione dolorosa ch’è nell’aria e nelle cose.
Tutti gli anni così. Finita l’estate, spenti i fuochi gloriosi dell’ultimo tramonto sulla laguna, succede una breve stagione di travaglio oscuro, sotto il peso della grande ombra errante. La terra, calcata dalla pietra, soffre profondamente d’un desiderio di vita non consumato, l’acqua è tutta brividi e sussulti nervosi, eccitata da un’impotente smania di fuga.
Alla fine, arriva l’ondata dello scirocco, e si stende sul corpo della città come un lenzuolo bagnato, appiccicoso. La febbre cresce, e comincia il delirio.
Il cielo, ora, è grigio caldo, con barlumi dorati e ombre di viola. Si schiara e s’infosca ogni momento; sprigiona lunghi raggi obliqui d’un falso oro abbagliante, si scioglie in piogge molli, simili a madidi veli. Alla sera s’apre tutto, e mostra le sue stelle, umide come occhi lacrimosi, meravigliosamente lucenti sui lastricati neri.
Poi, nella notte, la laguna comincia a salire, a salire, quietamente, silenziosamente, senza posa.
Tra sonno e veglia noi sentiamo, dai nostri letti, un confuso moto di correnti avviluppare le radici della casa, e il respiro ansioso delle acque gonfiarsi e montare, fino a confondersi col respiro stentato del nostro petto. Tutti i nostri sogni figurano un navigare traballante e sbandato, su mari tenebrosi, convessi dal lievito di secrete tempeste.
Aprendo le imposte, al mattino, vediamo che la marea ha colmato il vano dei ponti, ha invaso le rive, ha sollevato le barche, grandi e piccole, fin sopra le fondamenta, è penetrata nei portoni delle case. È un' acqua chiara, verdognola, lievemente appannata, che ondeggia pigra e si rompe contro le prode di marmo con sbattimenti fiacchi, ma alle svolte dei rii si mette a correre; a correre precipitosa, come se avesse trovato uno sbocco improvviso. E sale sempre, di minuto in minuto.
Una gran scena di trambusto; una specie di domestica inaugurazione del diluvio universale... Ma niente paura; si sa bene che a mezzogiorno, puntualmente, la marea comincerà a ritirarsi e che, dopo poco, anche le rive più basse saranno all’asciutto, sparse di viscide alghe e di sottile sabbia marina.
Infatti, la gente, che sa come vanno le cose, non se ne dà pensiero, anzi si rallegra dello spettacolo, e fa spettacolo da sé, per sé. Si raccoglie a crocchio davanti alle grandi pozzanghere che interrompono il transito, e sta a guardare quelli che tuttavia passano immergendosi coraggiosamente e guazzando fino a mezza gamba. Tratto tratto dalla piccola folla si levano strilli e clamori e risate. È un prete che arriva portato in collo da un facchino; un signore tutto nero, in bombetta e occhiali d’oro, che parte rannicchiato dentro una carriola, con la sua grossa busta di cuoio nero sulle ginocchia; una ragazza che si decide a lasciarsi issare sulle spalle da un giovanotto di buona volontà...
Così finisce la festa di Venezia. Domani o dopo, ci sveglieremo in tutt’altro mondo: chiusi, come festuca in vetro, tra un cielo e un’acqua egualmente nitidi e fermi, avendo intorno le precise geometrie della nuda pietra fatta città.
Silenzio
Non verrà mai tempo che la pietra di Venezia, questa sensibile pietra che soffre e muore come una carne, esprima il misterioso canto imprigionato nelle sue vene? e stormiscano, insieme, le foreste confitte profondamente nel limo? e si raccolga in melodia il susurro del vento sparso sulle acque?...
Tante volte ci siamo creduti presso a cogliere, nella muta trepidazione delle ore antelucane, il suono, la voce rivelatrice. Il silenzio era così premuto d’attesa e così sottile, che pareva sul punto di squarciarsi per generar musica, quella musica.
Ma no, nulla. Silenzio.
Molto silenzio per nulla.
Dialogo filosofico
Il gondoliere curvo sul lungo remo, ansimava, premendo forte contro la nemica corrente. Come l'isola bianca dei morti fu presso, uscì a dire
— Paron, qua finiremo tuti, povari e siori
— Ti dixi ben - rispose con volto tranquillo
il signore -
finiremo qua tuti... Ti vecio, intanto voga.
Diego Valeri.
Collezione: Diorama 28.11.34
Etichette: Diego Valeri
Citazione: Diego Valeri, “Fantasie veneziane: Fine della festa,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1855.