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Titolo: Licenza per la vendemmia

Autore: Tullio Colsalvatico

Data: 1934-12-05

Identificatore: 1934_503

Testo: Licenza
per la vendemmia
Nel mese di settembre la terra è come una tavola apparecchiata; e il contadino guarda sempre in aria: la sua ricchezza sta lassù: sugli alberi.
I poveri alberi, sempre in piedi con una gamba sola, ci dormono pure con le braccia cariche, e ad ogni venticello lamentano: — No, no; non ne possiamo più.
— Aspetta — risponde il contadino, testardo, — aspetta. Un altro po’ di sole.
Ma il diavolo, che sulle fatiche dell’uomo ci farebbe le capriole, si mette a soffiare, notte e giorno; e quando crede d’aver fatto, in quel modo, tutto il danno che poteva, monta in cielo — allora le nuvole s’intorbidano — e si mette a mordere il trono di Dio per farlo crollare. Ci si spezza i denti che arrivano sui prodotti come sassate: la grandine. Il contadino, castigato, cammina tra gli alberi, dà coraggio con le carezze e con la parola: mette fili, sostegni, rinforza le legature; prega. È solo contro gli elementi: si sente piccolo, impotente. Prega Iddio e si oppone al diavolo; mai come allora li sente tanto vicini. Solo col suo simile l’uomo è superbioso; di fronte alla natura s’avvede quale misero essere egli sia.
Ma tra i nemici delle fatiche nostre c’è l’uomo stesso « fatto a somiglianza di Dio, ma col cuore del demonio », come dice Sgaruccia che ha la vigna sulla strada con i grappoli imprudenti, sempre affacciati tra i pampani che non riescono a nasconderli; e lui, pover’uomo, ci lascerebbe gli occhi quando rincasa.
Se passi da Sgaruccia devi fermarti a bere. Ti toglie il cappello, e: — Non lo riprendi più, sai, se non bevi! — Ma non gli mettere piede nei campi se vuoi conservare la sua amicizia, ché è come metterlo sopra la sua persona.
Non è cacciatore Sgaruccia; non gli basta l’animo d’ammazzare un uccellino, « che poi quando vai a metterlo in bocca non lo trovi »; ha però la doppietta carica appesa al muro, sotto la giacca, con la bocca in giù. A settembre la stacca dal chiodo. La doppietta alza le sue bocche quindici giorni dell’anno; e per quindici giorni e quindici notti gli occhi di Sgaruccia, bianchi e rotondi, stanno sempre aperti come due monete d’argento. E allora, ogni mattina, si lava anche le orecchie; per sentirci meglio. Dorme nella vigna, in un capanno di gamboni; lì si fa portare anche da mangiare. Se per caso si scordassero di portarglielo, non si muoverebbe: non va nemmeno a messa.
La gente, passando nella strada, all’altezza della vigna, volta la faccia dall’altra parte.
Quando tira il vento, Sgaruccia gli sparerebbe contro una schioppettata dalla rabbia; quando piove o grandina egli esce dal capanno, si alza in mezzo alla vigna, senza cappello, dritto, immobile, come volesse dire al cielo di prendersela piuttosto con lui, invece di strapazzare così le sue fatiche. Poi si mette in giro a confortare grappolo per grappolo; riassetta i pampini, raccoglie gli acini, rinnova i pali spezzati. Tutti quei passi non lasciano tracce; la terra s’ammorbidisce sotto i suoi zoccoli: con lei ha maniere più delicate che con la sua donna.
« Quando si cammina nei campi bisogna incollarsele le gambe » dice lui.
Il tempo s’era fatto bello. Supino all’ombra, Sgaruccia pensava al figliolo militare che sarebbe venuto per la vendemmia. Solo i piedi di quel ragazzone ci vogliono: pareva che glieli avesse fatti apposta la madre, per quei grappoli, i piedi così grandi.
Sarebbe bastato il vino di un grappolo per far prendere la sbornia anche ad Andrea di Verdolina, che aveva scocciato tutti i bicchieri di casa:
beveva direttamente dalla boccaletta, perché il bicchiere tronca la bevuta a metà e poi « a forza di travasarlo, il vino perde ».
Le braccia indolenzite delle viti trascinavano le uve per terra al più leggero sospiro di vento. Sgaruccia ci avrebbe fatto mettere sotto le mani alle figliuole per non farle interrare se gli fossero bastate: si limitava ad aprire per ogni grappolo una fossetta con le dita; ma se dopodomani il figlio non tornava era un pasticcio.
Teneva d’occhio un nuvolo nero come il mantello del diavolo, che l’obbligava a stare in piedi tutta la giornata. La vigna non avrebbe sopportato un’altra bufera come quella di due notti fa: pareva che dovesse crollare il soffitto del Paradiso, e i lampi leccavano la terra proprio lì, dov’erano le sue viti.
« Ma dove incominciamo se non c’è lui? » si diceva Sgaruccia. Poi a toccar la vigna senza Mariano gli pareva un sacrilegio gliela voleva mostrare tutta sana. Ci si era trovato ogni anno, povero figliolo.
« Il primo dev’esser lui a sentirla s’è fatta ».
E non c’è niente che dica meglio di una divisa da soldato tra le viti. Così vestito, Mariano è un signore che porta tutti i giorni l’abito da festa.
Sarà il re della vendemmia con quella faccia aperta e allegra come un girasole e il « Lei » qui, il « Lei » qua. Trattava col « lei » anche sua madre fin dalla prima licenza. Figuriamoci ora. E Caterina non sapeva che rispondere, rimaneva confusa e si metteva a piangere dalla consolazione.
Il militare è una gran cosa: ti trasforma un figlio che non pare più lui. « Il capitano mi vuol bene », aveva scritto. E si capisce: l’avrà saputo anche lui della vigna tutta di sangiovese.
Come lo vedranno arrivare non ci sarà più bisogno di chiamare opere: verranno da loro ad offrirsi le ragazze, e la vendemmia sarà tutta una messa cantata per otto giorni.
E la moglie? Quando dovrà togliersi la divisa da militare, bisognerà sostituirla col vestito da sposo. A questo ci penserà lui, Sgaruccia.
Morto il sole, la terra si vesti di lutto e il cielo accese le candele. La luna, pallida vedova, usci a passeggiare nella notte piena di silenzio, con la scusa di prendere una boccata di aria fresca: ma il Paradiso, tutto chicchi di stelle, era anch’esso una immensa vigna da riguardare.
Accoccolato davanti alla porta del capanno, Sgaruccia la guardava pensando alle ragazze che valevano suo figlio e alle doti corrispondenti alla vigna. Erano pensieri che gli facevano piacere a pensare, quando dalla parte della strada uno strappo fece tremare tutto un filare. Le orecchie stavano dritte da tredici giorni; impennò la testa. Un altro strappo; balzò in piedi. Se gli avessero staccato un braccio con una strattata, non avrebbe avuto altrettanto male. Uno strappo ancora. Sgaruccia perse il lume degli occhi; non vide che ladri e carretti carichi di bigonci in fuga sulla strada. Per tutta quella gente sparò i due colpi.
Aveva ucciso ogni rumore; non si sentiva più nemmeno il silenzio. Solo scivolò dal greppo qualche cosa come un sacco. Nient’altro. Si guardò intorno ed ebbe il senso di trovarsi in un luogo estraneo; si senti separato dalle cose di prima. Si mosse staccando gli zoccoli a fatica: aveva le gambe di piombo dal ginocchio in giù e la terra affondava sotto il suo piede, gemendo.
Uscì dalla vigna come l’avesse tutta sulle sue spalle.
Trovò il figliuolo con i grappoli tra le mani e un acino in bocca che non aveva fatto in tempo a inghiottire. Era stato il primo a provarla; come aveva voluto lui.
La luna s’era coperto il volto con una nuvola scura.
L’usignuolo riprese a piangere dietro la porta chiusa della notte finché l’alba non gli venne ad aprire.
Tullio Colsalvatico.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 05.12.34

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Citazione: Tullio Colsalvatico, “Licenza per la vendemmia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1868.