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Titolo: Voci di poeti nostri negli Stati Uniti

Autore: Giuseppe Prezzolini

Data: 1934-12-12

Identificatore: 1934_515

Testo: Scrittori
italiani nel mondo
Voci di poeti nostri negli Stati Uniti
Nuova York, dicembre
Mi immagino facilmente che cosa sarebbe accaduto ad un americano di media coltura quando avesse letto l'articolo del mio caro e antico amico Carlo Linati sullo scrittore Carnevali pubblicato nella Nuova Antologia del 1° settembre 1934: « Un astro di più che promettevole splendore... formò l’ammirazione degli ultimi poeti americani, i più esigenti, i più rotti alle nuove esperienze della tecnica... ebbe un premio di poesia dalla rivista The Poetry ».
L’americano si sarebbe detto: — E come mai non lo conosco? Chi è? Voglio saperne e leggerne qualche cosa. — Ed eccolo intento a cercare. Nel Who's Who (il Chi è degli Stati Uniti, elenco di migliaia di personalità americane conosciute per azioni o cariche pubbliche o uh successo qualsiasi) Carnevali non c’è. Nel catalogo della New York Public Library (quattro milioni di volumi) il suo libro non c’è. Esso non appare nemmeno in quello della famosa Library of Congress di Washington. Il mio americano spoglia allora il Kunitz, Authors today and yesterday: nulla; si rivolge al Lawrence, Who is who among living authors, nemmeno qui lo ritrova. Afferra la storia della letteratura americana di Cambridge: silenzio. Telefona alla libreria B... (la meglio fornita... ecc. dicono le pubblicità): i commessi non ne sanno nulla. Dopo altre pazienti indagini trova cinque righe su trecento pagine in una storia della recente letteratura americana del Kreymborg, e nell’indice generale degli scritti pubblicati in periodici americani riesce alla fine a scovare l’indicazione dei fascicoli della rivistina The Poetry che contengono alcuni poemetti di Carnevali, più tardi raccolti in volume a Parigi, il quale è perciò sconosciuto nelle biblioteche di qui.
Ho voluto dir questo non per diminuire il valore del Carnevali, nè del caso raro (se non unico, come dice il Linati) di un ragazzo italiano che vivendo per qualche tempo in America è riuscito a impossessarsi dei segreti della lingua anglosassone in modo da riesci re a scrivere in quella prose e liriche originali; ma per notare che la sua riescita è limitata e la fama molto circoscritta.
I poemetti in prosa o in versi estremamente liberi del Carnevali hanno un’esile ma' Certa vena lirica, quando non si soffermano in pure notazioni di fatto e di sensazione: l’immagine vi fa talora capolino e anche vi fa timido accenno qualche ritmo. È stato più facile per il Carnevali inserirsi nella liricità contemporanea, senza fossati di prosodia nè muri di metrica, che in quella classica: gli esempi datine dal Linati son sufficienti a mostrarlo.
Da un punto di vista sociale l’America non è apparsa ai nostri immigrati tenera amica e madre:
« Io vi portai — dice il Carnevali alle camere d’America che l’ospitarono — malattia, e voi malattia restituiste; io vi portai miseria, e voi miseria mi rendeste. Io vi portai gioia e voi mi deste in cambio disgusto, un disgusto così potente che vi avrebbe fatto esplodere in mille pezzi, se mi fessi lasciato guidare da esso ».
Ma il Carnevali non è l’unico italiano che, venuto qui non più ragazzo, abbia saputo impadronirsi della lingua inglese. Più celebre di Carnevali è stato Pascal d’Angelo. Fu scoperto in un concorso di poesia dal più famoso dei critici americani, Carlo Van Doren. Era un semplice manovale, abituato a lavorar col piccone e colla pala, al quale una biblioteca locale aveva rivelato gusto per la parola (studiava sul dizionario inglese e si divertiva poi a sbalordire i compagni americani) e per le immagini.
Una sera che il cielo era pieno di stelle, aveva detto ai compagni: « Le stelle marciano nella notte profonda. Contro chi van esse in guerra? — Eh? con chi? — chiedevan essi. — Coll’imperatore dell’eternità. — E chi è? — La morte — aveva risposto D’Angelo.
Per un po’ di tempo il caso di questo sterratore abruzzese, che era stato capace di scrivere liriche in un inglese colorito, gustoso, aderente ad una fantasia mobile e nobile, suscitò l’interesse dell’America; Pascal D’Angelo pubblicò poesie in riviste e in giornali; e un grande editore, il Macmillan, ne accettò un’autobiografia, (Son of Italy - Figlio d’Italia, 1924), preceduta dalla prefazione del Van Doren. Poi questo paese è così grande, e se ci vuol tanto per svegliarlo ci vuol ancora di più per mantenerlo sveglio, che si stancò; e dimenticò Pascal D’Angelo, e io lasciò morire due anni fa, in una di quelle stanze dove aveva cominciato a vivere la sua esistenza d’emigrante, così bene descritte nella sua autobiografia.
Questa fa risonare una nuova nota fra le autobiografie di emigranti, che si contentano di raccontare come essi riescirono a conquistarsi una posizione in America. Stavolta le montagne abruzzesi avevano mandato negli Stati Uniti non un manovale di più, non un altro costruttore di case, non un politicante ma un figlio di quell’Ovidio per cui Sulmona è famosa. « D’ora in poi nessun americano, scrisse Van Doren, che guardi una squadra di bruni italiani intenti a fare uno scavo, potrà trattenersi dal domandarsi se non c’è fra di loro un Pascal d’Angelo ».
Altri nomi italiani nella poesia americana non vedo. In pittura, in musica e soprattutto in scoltura vi sono molti bei nomi nostri; non nelle lettere. In lingua italiana non si trova nulla di paragonabile a questi tre poeti di lingua inglese. Cinque milioni di italiani non hanno aggiunto un poeta nuovo alla letteratura modernistica d’Italia: nulla che possa star accanto ai Palazzeschi, ai Saba, agli Ungaretti d’Italia.
Gli è che il possesso della lingua è lungo. Le generazioni italiane vennero in questa terra generalmente senza coltura, spesso senza nemmeno coltura elementare italiana. Sapevano il dialetto e qui formarono, tra dialetti, italiano e inglese, un « gergo », che serve ancora per il mestiere e per gli affari, ma è privo di sentimenti e di affetti. Io la chiamo « la lingua della giobba », perchè è nata da necessità pratiche è in questa lingua non si posson scrivere se non delle satire. È un « gergo » che fa ridere.. Ciò che ne è nato in letteratura è sempre satirico.
Fa ridere nelle caricature teatrali che ne ha creato un nostro'popolare attore, il cav. Migliaccio, che con la sua maschera di « Farfariello » resterà il classico interprete di tutto un periodo della immigrazione italiana, quella che chiamerei dei « prominenti ».
Oggi questi aspetti della vecchia immigrazione incominciano ad appartenere al passato. Gli Italiani, dopo la guerra e il Fascismo, attraverso la scuola americana e il miglioramento sociale dovuto alle loro grandi virtù familiari di lavoro e di risparmio, vanno acquistando sempre maggiore serietà e coscienza.
Oggi le associazioni italiane sono potenti per numero di membri, talune per capitali raccolti, e si occupano di « borse di studio » per i figli loro che voglion mandare a vedere l’Italia di Mussolini. Oggi le associazioni italiane sono ricercate dagli uomini politici, americani, che ne sollecitano il voto nelle elezioni statali e federali.
Appartiene al passato la serie di sonetti « La Colonia di Dante » di Michele Allinari, pseudonimo di un dottore molto spiritoso di qui, di cui do un esempio:
Tengo lo stòro in basso di città, e quando vuoi puoi farmi il telefono; vienmi a trovare, ogni momento è buono:
mattina e sera il bisness mi tien là.
Distante? Eh! cento blocchi, non canzono: ma la distanza a te che te ne fa?
Dont cher, con tutte le comodità di tutti i treni e i carri che ci sono.
Non è un gran trubel; basta che tu provi; alla terza Avena c’è l’olivetta: prendi il treno e discendi in Aussonstritto, fai quattro blocchi a destra, e vedi scritto, fra t’andetèca ed il rialestèta:
« Qui si parla italiano » e li mi trovi.
Dizionarietto
storo (store) = bottega; bisness (business) = affari; dont cher (do not care) = non preoccuparti; carri (cars) = automobili; trubel (trouble) = fastidio; Olivetta (elevated) = ferrovia sopraelevata; andetèca (undertaker) = impresario pompe funebri; rialestèta (real estate) = beni immobili.
Uno soltanto, mi pare, fra i parecchi che, venuti in età non più giovane dall’Italia, hanno conservato l’uso della lingua italiana ed hanno scritto in italiano o traduzioni o saggi o articoli, ha preso l’ispirazione dalla vita degli immigrati per liriche sostenute con un vigore che risente del classicismo, ed è Antonio Calitri, insegnante in una scuola media della città di Nuova York. I suoi « Canti del Nord-America » (pubblicati in bella edizione presso Stock, Roma, nel 1925) mostrano il mondo poetico d’un uomo che ha sognato ed amato, e che ama i suoi sogni e i suoi amori più della realtà, che venuto dalie nostre campagne e dalle nostre stagioni ha vissuto con i nostri armenti e con i nostri pastori, ma nella grande terra americana non si è lasciato abbacinare dalla meraviglia delle abitazioni toccacielo, bensì vi ha evocato gli spiriti dei primi grandi abitatori e ha pianto per la sorte dei propri compaesani. Quando le guerre son venute ha sentito pulsare il cuore della Patria lontana e a quel battito le sue labbra hanno risposto con parole concordi. È stato il poeta degli emigranti, di cui ha veduto gioie glorie e dolori, recando loro un dono di immagini e di armonie che racchiudon pensieri di equilibrio e di bontà.
Come insegnante ha anche creato e diretto per vari anni un giornalino per i ragazzi della sua scuola, Il Convito, dove si sente l’anima d’un buon padre, d’un colto insegnante e d’un innamorato della poesia. Ma parleremo in un prossimo articolo dell’opera specifica e dell’influenza di un educatore italiano: Angelo Patri.
Giuseppe Prezzolini.
Il poeta-operaio Pascal d’Angelo, morto in America.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.12.34

Citazione: Giuseppe Prezzolini, “Voci di poeti nostri negli Stati Uniti,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1880.