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Titolo: MORALITÀ LEGGENDARIE: Can can in cucina

Autore: Leo Longanesi

Data: 1935-01-30

Identificatore: 1935_77

Testo: MORALITÀ LEGGENDARIE
Can can in cucina
Da mesi pensavamo di fare una visita al Dottor K, e una sera del giugno scorso finalmente ci decidemmo a recarci da lui. Il dottore abitava nei Prati, in una villetta rossa a due piani, cinta da una cancellata scura, dietro cui apparivano due palme ormai secche. Una placca smallata, collocata su uno dei due pilastri d’ingresso, recava a grandi lettere azzurre il nome del dottore, con sotto scritto:
Della Università di Vienna Psicanalista
Suonammo e alla porta apparve una ragazza bruna, la cameriera, giovane e bella, dagli occhi lucenti e le mani paonazze.
— Desideriamo il dottor K, veniamo da parte della signora D.
La ragazza ci introdusse in una stanza e scomparve. Nella stanza, illuminata da una debole luce razionale, con le pareti ricoperte da una strana tappezzeria rossiccia a stampiglie dorate, apparivano un grande scrittoio, un divano, alcune seggiole e tre file di grossi volumi allineati in uno scaffale nero.
Ad una parete stava appeso, in una cornice di legno scuro, il ritratto di un bel vecchio dall’aria nobile e due occhi pensosi, che c’inseguivano per tutta la stanza. Era il ritratto di Freud. I libri, rilegati in tela rossa, recavano nel dorso lunghe scritte tedesche, impenetrabili e austere, che testimoniavano la serietà di quello studio; ma il divano era fra tutti i mobili della stanza quello che attirava maggiormente l’attenzione del visitatore. Messo di traverso fra la scrivania e la finestra, con la spalliera volta verso l’ingresso, aveva il sinistro aspetto di un catafalco e non invitava a sedercisi sopra.
Mentre tentavamo di scoprire la funzione di quel mobile venne il dottore, in punta di piedi.
Era costui un uomo di bassa statura, magro, con la testa rasa e due occhiali d’oro a stanghetta che per uno strano riflesso della luce sulle lenti non lasciavano mai vedere gli occhi. Cerimonioso e sornione, ci accolse con gentilezza, pregandoci dj sedere, e fu egli stesso a svelarci il mistero del sinistro divano.
— È il mio tavolo operatorio, o meglio il mio confessionale. Il paziente si siede o si sdraia, volgendomi le spalle, ed io l’interrogo senza vederlo negli occhi per lasciargli maggior libertà nella esposizione.
Cominciammo così a discorrere di psicoanalisi e del perché della nostra visita: — Desideriamo pubblicare qualche scritto del Freud, avere qualche chiarimento sull’illustre scienziato, sapere un po’ come va questa faccenda della psicoanalisi.
E il dottore; con voce pacata e sommessa, iniziò una vera lezione « prendendo le mosse, come egli diceva, dalla conoscenza generica della nuova scienza ».
Scandendo ogni sillaba, in un silenzio mortale, la sua voce senza calore, uguale e pacata, non teneva desta l’attenzione e moriva come un suono molto lontano dai nostri orecchi.
La poca luce della stanza, il colore della tappezzeria, la monotonia dei volumi rossi allineati nello scaffale, il nero scrittoio, gli occhi del vecchio in cornice, la triste geometria del pavimento a mattonelle, una nera e una rossa, e il sapere che in quella stanza si svolgevano misteriose analisi, ci recavano pena e sconforto.
* * *
Non avevo dormito la sera innanzi e il lento discorrere del dottore, interrotto da lunghi silenzi, nei quali egli si osservava attentamente le mani, e la luce velata della lampada e il restar seduto senza muovere aeppure gli occhi, mi inclinavano al sonno. Come in un dormiveglia, vedevo le mattonelle a esagoni annebbiarsi o cambiar forma, e udivo la lezione del dottore come un rosario.
A stento reggevo diritta la testa pesante di sonno.
Tutto a un tratto, fui attirato da una luce accesa all'improvviso; alzai gli occhi e vidi che dinanzi a me, in fondo al corridoio, appariva la cucina della casa. Allora non guardai ad altro.
Di tanto in tanto, la ragazza che ci aveva poco prima aperto l’uscio, appariva nello spazio illuminato che io scorgevo, accudendo alle faccende domestiche, ed ogni volta si volgeva dalla mia parte sbirciando curiosa. La vedevo attaccare un asciugamano a un chiodo, aprire la madia o tappare una bottiglia; e appena scompariva dal rettangolo illuminato della porta, udivo i familiari rumori della cucina e immaginavo quel che faceva e ne calcolavo la durata e pensavo: — Fra poco torna. Infatti la ragazza ritornava trovando facili pretesti per aprire la credenza o la cucina economica, e si volgeva dalla mia parte sempre più indugiando nello sguardo.
Il sonno già m’era fuggito, ma ancor meno udivo quel che il dottore raccontava, mentre il mio compagno dava segni di attenzione, chiedeva schiarimenti al dottore, prendeva appunti e tentava di muovere obiezioni più per nascondere il mio contegno che per altro.
La serva, ancora una volta, tornò a cercare qualcosa nella credenza, poi prese una seggiola, vi salì sopra, tentando di agguantare un barattolo che stava sull’ultima mensola del mobile, e in questa impresa le sue gonne, prese dalla spalliera della seggiola, si alzarono. Il barattolo era irraggiungibile, ma la ragazza s’ostinava ed io altro non chiedevo.
Stanca, abbandonò la fatica e nello scendere dalla seggiola, accortasi di avere mostrato fino allora le gambe, si rigirò dalla mia parte, tirando giù le gonne sorridente.
Poi un colpo di fulmine entrò in quella cucina. Io non so né come né perché, ma la ragazza strinse la gonnella con tutte due le mani e le alzò fino ai ginocchi. E rideva, rideva. Poi scomparve. Udii scendere l’acqua del rubinetto nel secchiaio, e un muovere di piatti.
Io non attendevo che il ritorno di lei che non si fece aspettare troppo. Difatti, poco dopo riapparve nel vano della porta della cucina, mostrando la sola faccia e facendomi marameo, come per dirmi: — Ora non vedi più nulla, caro mio.
Invece ritrae la testa e allunga una gamba e la mostra fin dove può, restando nascosta col corpo; poi appare con tutta la figura e riprende a sollevare ed abbassare le gonne come una girl. Così per più volte, ora volgendosi di faccia ora di schiena, sempre più bizzarramente, con occhi che io vedevo brillare come diamanti.
Ad un tratto fui colto da un silenzio, seguito da uno spostarsi di seggiole. Il professore aveva finito di discorrere ed era giunta l’ora di andarsene.
Come colto in flagrante, rosso in volto, mi alzai di scatto e dissi non so quali parole di convenienza.
Cortese, il professore ci volle accompagnare fino alla porta precedendoci, e nell’attraversare il corridoio vidi con dolore che la luce della cucina s’era spenta.
E con la scienza della psicoanalisi non ho avuto altro incontro all’infuori di quello; da allora, ogni volta ch’io leggo il nome di Freud, rivedo la serva in cucina alzar le gonne e ballare il can can.
Leo Longanesi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.01.35

Citazione: Leo Longanesi, “MORALITÀ LEGGENDARIE: Can can in cucina,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1986.