L’idea geniale (dettagli)
Titolo: L’idea geniale
Autore: Mario Viscardini
Data: 1935-02-06
Identificatore: 1935_87
Testo:
L'idea geniale
Agl’inizi della mia carriera presso la Società Bartel e C. non ero ancora matematicamente sicuro di essere un uomo di genio, come il mio signor direttore ingegner Tubini. Cominciavo tuttavia anch’io a dar dei segni preoccupanti di quel furore ideativo che accompagna, simile al lampeggiamento dei tuoni, lo scatenarsi delle grandi energie intellettuali.
Ogni tanto, improvvisamente, mi sentivo nella testa, entrate non si sa come, delle idee assolutamente nuove, sbalorditive; erano come impreveduti agganciamenti tra cafri di convogli diversi, ponti arditi tra rive opposte d’insondabili abissi, aurore boreali che diffondevano un chiarore fantastico su territori affatto bui e deserti.
Sul teatro dell’immaginazione s’intrecciavano drammi non preparati; avvenivano cambiamenti di scena vistosi, che meravigliavano pel primo il capocomico; s’affacciavano alla ribalta attori che non avevo mai pensato di scritturare e che dicevan tutti, con voce prepotente e presuntuosa: — Sono un’idea geniale. Ti porto onore e gloria. Dammi cinque minuti di attenzione e sarai il più fortunato degli uomini.
Ma guardatele davvicino queste famose ispirazioni! Nient’altro che cenciose vagabonde, che vanno rivestite da capo a piedi, alla moda del giorno; nutrite e pasciute per mesi ed anni, affinché stiano in gambe. E poi, alla fine, quando affrontano il destino, dovrete ancora chiedervi ad ogni istante: — Sono vere? Sono oneste? Non saranno mai state di nessuno? Di quanti saranno ancora?
Per questo pensatori e innamorati hanno tutti in comune la preoccupazione e la gelosia.
Ma l’ingegner Tubini costituiva un’eccezione. Era un uomo grandioso e bonario che, quando ti tendeva la mano, pareva che ti dovesse stringere in pugno, come un passerotto. Gli uomini di grande statura fanno sempre un’impressione quasi sensuale di potenza sui maschi più deboli e mingherlini; io lo consideravo come un nume; mi adoperavo del mio meglio a imitarlo, procurando di capire dove stesse realmente il segreto di quelle sue ideazioni incomparabili, che ogni tratto portavano negli uffici della Società Bartel e C. il ciclone dell’imprevisto, la febbre della creazione, o il terrore dell’idea fissa; soprattutto gl’invidiavo la sicurezza. L’ingegner Tubini non conosceva la modestia più che un bambino di cinque anni, il quale, nella sua opinione, è sempre il più bravo, il più buono, il più bello di tutta la sua specie. Per questo ignorava pure la gelosia e il dubbio.
Ci sono dei barometri guasti, sempre fermi sulla pioggia o sul bel tempo; e non si può dire che sbaglino, se non di eccessivo anticipo. Sono barometri filosofi; e si potrebbero chiamare pessimisti e ottimisti, e attribuire la loro ostinazione, non a un guasto, ma ad una specie di temperamento personale. Tubini segnava sempre bel tempo, e i suoi grandi occhi, che rotavano nelle orbite come quelli delle bambole, diffondevano serenità su quanti lo accostavano.
Fu questo lato del suo carattere che io cercai alla prima occasione di far mio; ciò m’accadde a Venezia.
Farà meraviglia a qualcuno d’intendere come le idee più strabilianti e impensate possano sorgere così, mentre un Tizio qualunque se ne va con un vaporetto dai Giardini al lido. Eppure non ci metto una virgola di mio.
Fu gettando un’occhiata sul vasto bassofondo che la marea aveva lasciato scoperto, e che si stende al di là del canal di San Mauro, di fronte ai Giardini Pubblici, fino a San Servolo, che io ebbi l’idea fulminea di cintarlo con pali di cemento armato, riempirlo di materiale e trasformarlo così in un chilometro quadrato di terreno fabbricabile del valore commerciale di almeno un centinaio di milioni.
In un baleno vidi ergersi davanti a me una foresta di battipali a vapore; pontoni, pontili, incastellature, cantieri, tutto sorse nella sua logica disposizione come se ne avessi da lungo tempo studiato il piano; macché, non avevo ancora raggiunto il Lido e già miravo alle mie spalle lo splendido quartiere allacciato da magnifici ponti a Piazza San Marco; già ne studiavo con l’immaginazione gli scorci, le prospettive; lo contemplavo alla luce del tramonto, fuso nell’atmosfera di Canal Grande e della Giudecca, avvolto nel barbaglio della meravigliosa laguna. Tanto m’invaghii di questi sogni che per tre giorni non mi seppi staccare da Venezia, dove camminavo con passo dogale, parendomi quasi d’averla inventata.
Tale ritardo spiacque in ufficio, particolarmente pel fatto che il signor Rothe, mio collega, doveva andare in congedo. Gli era giunta la fidanzata dalla Germania e, per cagion mia, non poteva sposarla subito e portarsela a casa. Quando giunsi lo trovai costernato, arrabbiatissimo. La sua fidanzata, una fanciulla dalle gambe grosse, dal musetto bruno voltato in su, tutto liscio d’innocenza, con due occhietti verdi incassati sotto la fronte piccola e piena d’orgoglio infantile, mi guardò con un broncio che mi commosse. Anche il signor Tubini mi diede qualche segno di malumore.
Ma io, forte del gran progetto che nutrivo nel cervello, mi sentivo al di sopra dei loro apprezzamenti. Visto che erano così maldisposti verso di me, chiesi un aumento di stipendio.
In realtà trovavo assurdo che Rothe fosse pagato meglio di me, pel solo fatto che era tedesco. La sua competenza, veramente unica, in materia d’impastatrici pel calcestruzzo, non mi sembrava più costituire l’apice dell’intelletto umano; e la serietà con cui sapeva elaborare; disegnandolo al vero, il manico di una carriuola, mi pareva il prodotto di una buffa e innocente mania. Mi veniva l’uzzo di gridargli: — Ma non si accorge che la tecnica è tutta una parata per nascondere il commercio? E che basta ungere le ruote perché le carriuole vadano benissimo con qualunque manico?
Queste cose le dissi all’ingegner Tubini, aggiungendo che m’ero accorto, se mi ci mettevo, d’esser capace di ben altre ideazioni.
— Cosa diavolo ha inventato? — mi domandò il brav’uomo, guardandomi con quel suo faccione da San Tommaso, che avrebbe dato coraggio a un bambino. Cavai di tasca una pianta di Venezia e gli esposi il mio piano. Tubini capi a volo. Chi pensa a una grande impresa tecnica la vede attuata da un esercito di ingegneri, disegnatori, specialisti; niente di simile; a progettare e dirigere un miliardo di lavori bastano sei o sette persone in una camera con dieci tavoli. Dove lavora l’intelligenza occorre poco più spazio di quello che occupa il cervello; il laboratorio è tutto dentro. Il mio direttore non esitò un momento a far sua l’iniziativa. Chiamò Rothe e gli disse:
— Lei, ingegnere, mi ha chiesto cinque giorni di congedo per il viaggio di nozze; glie ne accordo otto, purché si diriga dalla parte di Venezia e s’interessi alla pratica genialmente avviata dal suo collega.
Quelle parole mi portarono alle stelle; i miei occhi sfavillarono e poi s’inumidirono di commozione. Rimaneva la faccenda dello stipendio. Fin da bambino il mio punto debole era quello di non saper mentire. Mia sorella una volta mi osservò: — Proprio tu che potresti dire un sacco di bugie, perché te le credono, dici sempre la verità. Cretino! —. Era così. E anche davanti al mio direttore non trovai la forza di buttar fuori quella piccola menzogna che occorreva. Tubini mi fece delle promesse vaghe, per dopo la riuscita dell’impresa veneziana; e me ne dovetti accontentare per non togliere credito alle mie stesse speranze.
Rothe partì e per dieci giorni continuò a scrivere che tutto andava a meraviglia. In ufficio già si lavorava ai progetti e al preventivo; gl’impiegati mi consideravano un portento; Tubini mi guardava con una considerazione tutta nuova e io mi sentivo tanto pieno di boria che davo noia persino a me stesso.
Quando Rothe tornò gli corsi incontro. — Dunque, si fa l’isola? —. Ma quello, fissandomi coi suoi occhietti maliziosi, mi fece un sorrisino che non gli avevo mai veduto.
— Tagliano scrocco, ma tedesco tre volte scrocco — mi disse in quel suo dialetto mezzo gotico e mezzo meneghino. — Voi, con isola, fatto tre giorni vacanza; io fatto dieci.
Mascalzone! pensai tra me; ma non ebbi il tempo di esprimermi. Apparve Tubini a confermarmi che il Genio Civile si opponeva in via di principio a qualunque costruzione del genere.
— Mi spiace per lei — soggiunse battendomi familiarmente sulla spalla, con aria di sincero rimpianto. — Un genio mancato!
— No, no — protestai. —. Dica piuttosto un imbecille riuscito. Ho sempre preferito di credermi un imbecille che una vittima.
Mario Viscardini.
Collezione: Diorama 06.02.35
Etichette: Mario Viscardini
Citazione: Mario Viscardini, “L’idea geniale,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1996.