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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1935-03-20

Identificatore: 1935_148

Testo: Calcomanie
Val Bisagno
Dopo l’acquata, i giorni che l'aria è cenere e il mondo belletta, questo solicello si beve.
Anche il paralitico di cui si scorgevano per la finestra i grandi piedi neri sul drappo del letto, è uscito pel suo pezzo di terra a intiepidire le vecchie ossa. Si muove a stento. Nel suo viso inasprito indovino una tenerezza mentre tenta col bastone i cavolacci che vanno in semenza.
La borgata dei marmisti, all’ingresso di Staglieno, suona di scalpelli. Una strana clientela deve avere qui in mezzo l’Osteria della Clementina. Clientela macabra. Oltre lo scalpellino, vi comparirà il fabbricante di bare, il becchino, qualche volta il gallonato delle pompe funebri. Tutta gente in confidenza con la morte. V’entrerà un minuto a vincere l’intirizzimento anche la fioraia dei defunti che sul piazzale offre il candelotto dietro la siepe candida o vinata dei crisantemi.
Quassù, in vista del cimitero, il campanile di Staglieno pare un pastore che si tragga dietro un gregge di croci e di cippi. Ombreggiato dalle querce il piazzaletto della chiesa brilla, mosaico di ciottoli; e il martirio di San Bartolomeo, spellato vivo sul portale con coltellacci da beccaio, non ha in quest’aria nulla di atroce.
Dopo le faccende dell’anno, la terra pare si metta alla finestra. Spartita dal greto del Bisagno, la vallata si spalanca felice. Di qua e di là, ammonticchiati, i colli facili, le borgate festanti, gli appezzati color mattone, gli scampoli di raso dei prati. Campagna magra ma sontuosa per lo scialo di colori che autunno vi fa. Già spogli, i fichi biancheggiano; i castagni s’aggruppano in macchie cupree; e cipressi dappertutto: astati, i giovani, scolte nereggianti; gli annosi simili a nubi di fumo pietrificato. Ma la festa degli occhi che ne sono ventilati è lo sventagliare glaucoargenteo dei canneti e l’ombra che in terra accenna la magrezza degli olivi.
A Prato entro in una bottega di commestibili. Pezze di lardo; i misurini dell’olio anneriti dalla polvere. Di pieno giorno vi fila un lume a petrolio. La padrona si muove dietro al banco come una chioccia.
Il risparmio tenace e magari il soldone sotto il piatto delle derrate — una cosa quasi permessa —; pochi grammi frodati tante volte al giorno, tutti i giorni per tanti anni; e potrà in vecchiaia acquistarsi una casa...
Ma oggi anche col fabbro mi cambierei, che suscita nel suo buco buio il cespuglietto delle faville; con ognuno di questi piccoli negozianti che han sulla porta gli emblemi umili e universali della frasca di pino, del ferro di cavallo...
L’oriolo
I colpi si accusano dopo. Nella notte — da nulla destato se non fu dal silenzio — mi trovai in piedi, senza cercarvi nulla, per la stanza macchiata di luna. Cuore vivo nel silenzio, m’attirò dove rientrando l’avevo deposto, su sé mi piegò l’oriolo. Li per lì non avrei saputo dire perché m’aspettavo che nel frattempo il suo battito si fosse chetato; ma constatare che persisteva mi colpi, nell’atto, come una sopravvivenza; quanto almeno in fondo al canterano trovare che va l’oriolo smesso dal nonno.
Vero è che subito dopo di quello stupore stupivo.
Intanto dalla nebbia misericorde del sonno m’affrontava senza scampo il volto della sera innanzi.
Una donna mi parlava; e col gesto e la voce era come mi passasse sulla fronte affebbrata la mano: Svegliati: sognavi, non vedi?
Io mi sentivo ritirare l’aria e di quella che avanzava, un filo, sentivo che d’ora in poi dovevo vivere.
Senza voce la guardavo: vicina ed irreale. Giocherellava con un mignolo e d’un mignolo faceva tutto crollare. Sorrideva e non capivo come potesse.
Rimasto solo, barcollai qua e là come colpito. Di me non sapevo da capo che fare. Da capo la mia vita era a picco sul vuoto.
Scartato in un canto della stazione — a quell’ora, impossibile credere che un diretto l’avrebbe ancora animata; spenta che neanche i merci la dovevano più toccare — di colpo la scarsità del respiro m’adeguò agli oggetti intorno; m’abolì: illusione che parve esaudire qualcuno, affacciatosi a fare il buio nella sala riconosciuta vuota.
In piedi nella stanza, mi ritolse il fiato l’incombere del ricordo: mancanza d’aria su cui m’ero certo svegliato.
Allora capii il mio stupore di prima e che, tra sonno e veglia, avevo solo scambiato oggetto.
D’un altro oriolo m’ero stupito: che come nulla seguitava ad andare; in me; macchina anch’esso.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 20.03.35

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2057.