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Titolo: Il maggiordomo

Autore: Adriano Grego

Data: 1935-05-15

Identificatore: 1935_211

Testo: Il maggiordomo
Era una grande villa, una volta, e in essa una legione d’animali annunciava l’alba, il giorno, il crepuscolo, il buio a ordinati e misteriosi plotoni. Così vi cantavano grilli e cicale. I pipistrelli si nascondevano tra gli anfratti delle grotte umide ed inquietanti. E poi c’erano le rane che guatavano gracidando dai bordi del lago. E poi formiche e ramarri e perfino due tartarughe sornione che sembravano, anche a pochi metri di distanza, grosse pietre dimenticate.
Finché i ragazzi della villa si dedicarono a catturare queste piccole prede viventi, la vita, laggiù, dietro i cancelli, si conservò per molt’anni serena. Incominciarono invece le prime convulsioni quando uno dei ragazzi cercò altri animali. Prima le starne, col fucile. L’anno dopo il cavallo da sella. E due anni più tardi gli trovarono, in fondo a un cassetto, una fotografia di donna.
* * *
Il vecchio maggiordomo, a ricordare queste cose, si commuove. — Guardi — mi dice. E mi fa girare per il parco devastato che ha cambiato padrone. Gli enormi alberi ombrosi sono partiti, issati sugli autocarri, recisi alla base dai denti maligni delle seghe. Via tutto. Ora l’erba è scomparsa dai prati, la ghiaia dei viali è stata rastrellata. Gli abeti, le quercie, le magnolie, i castagni, non ci sono più: non restano che dei cerchi legnosi che odorano di segatura, delle radici scomposte, delle enormi buche, ricetto di formicai. — Guardi — ripete e mi mostra col dito la linea del muro di cinta che sembra davvero il rottame d’un’antica civiltà. Costruiranno nel parco quattro, cinque, dieci villette e verranno forse alla domenica degli uomini scamiciati. È vuota la scuderia. Anche i finimenti dei cavalli sono finiti all’asta. Ora i ragazzi son diventati grandi e non lo chiamano più, lui, il maggiordomo, con i nomi e i nomignoli d’un tempo. Domenico. Memmo. Il più piccolo lo chiamava Mimmomammolaemedoro. Si sono perduti nella città. Pfui! E lui, il maggiordomo, s’è fatto tagliare le basette.
* * *
Nella casa in cui Domenico abita con la moglie, che fu anch’essa a servizio degli antichi padroni, si trovano, appese alle pareti della sala da pranzo, le fotografie dei ragazzi. Ecco Mario quando andava a cavallo. Ecco i quattro ragazzi sul biroccino condotto da Miracolo, il ciuco che è morto... aspetti... s’era al tempo della guerra di Tripoli... che è morto di colera proprio quell’anno. Ecco Andrea vestito alla marinara. Ecco la signorina Raffaella vestita da ciociara... Tutte le fotografie si riferiscono all’infanzia dei padroncini e le ultime sono del tempo della vendita della villa: il tempo del disastro.
Che se ne farebbe, Domenico, delle fotografie di Mario, di Andrea, di Raffaella, diventati grandi? Il suo amore s’è fermato come una meridiana a cui non arriva più il sole. Parla, parla, e t’accorgi che dopo venticinque anni la sua tragedia è rimasta quella di quei giorni famosi.
— Io mi sono permesso di dirlo, alla signora, tre volte mi sono permesso di dirlo. Signora, se lei permette un suggerimento a un vecchio domestico fedele, a un uomo che conosce questo paese sasso per sasso, non bisogna vendere in questo modo. Il frutteto sperimentale si può cedere e magari anche la fattoria del lago. Ma il Mondor non si deve vendere. È terra d’oro, signora. D’oro, le dico...
Ora, il suo corruccio verso gli antichi padroni non lo nasconde più. Per anni ed anni è stato ad aspettare che tornassero a comprare la terra, che tornassero ad abitare nella grande casa patrizia dal cortile claustrale. E quante litigate all’osteria! Perché si sa: quando uno fa un capitombolo tutti incominciano a dire che era zoppo anche prima. E così, maligni e timorati di Dio sembravano in combutta per punzecchiare i signori alla malora e per mortificare il vecchio maggiordomo fedele. Il quale diceva: « Aspettate e ve n’accorgerete... i miei padroni hanno delle risorse che nessuno se le immagina... se potessi parlare... se potessi... avrei da raccontarvi qualche novità che non vi sognate neppure... lo sapete? Ho buone notizie da Milano ».
Piccole bugie che inventava lì per lì, ma che in fondo non erano, per lui, che delle verità anticipate. Perché c’era poco da dire: un giorno o l’altro il signorino Mario sarebbe venuto in paese col tiro a quattro o con una grande automobile lucente e avrebbe riscattato tutto. Oppure sarebbe arrivato il signorino Andrea (quello che adesso è diventato ingegnere) e sarebbe venuto da lui: « Domenico, eccoti uno chèque in bianco.
Paga quello che c’è da pagare, aggiustati tu, ma io voglio che il vecchio possesso di famiglia ritorni in mani nostre: non un ettaro in meno. Intesi? ».
Invece niente. Passavano gli anni e i padroncini restavano in città a studiare a lavorare a divertirsi, e al Mondor non pensavano più, e nemmeno al vecchio parco principesco e nemmeno alla casa dal grande cortile; quello da cui una volta partivano i cortei delle pariglie per le gite sui laghi, e i contadini sì levavano il cappello.
Passavano gli anni e i vecchi poderi si sminuzzavano, cambiavano padrone, diventavano miserabili appezzamenti da tira a campà. E poi, l’ultimo oltraggio: anche il parco venne straziato. Ogni mattina s’udiva il rumore delle seghe e delle ascie. Ogni sera c’erano venti buche di più, nere e schifose, oppure dei cerchi legnosi che puzzavano di segatura. Avete capito? Ora verranno a sedersi alla domenica le servotte accaldate. Berranno la birra, lasceranno sul terreno le scorze dei frutti e la carta oleosa per involgere la galantina e il salame. Meglio non pensarci. E Domenico, dopo venticinque anni, s’è fatto radere le basette. La famiglia è finita. Non verrà più nessuno. Un altro quartino, sior Domenico? Un altro quartino.
* * *
— Domenico, — gli ho detto un giorno — la sai la grande novità? Il tuo vecchio padroncino, Andrea, è diventato capo di una fabbrica con più di duemila operai. Un pezzo grosso, caro Domenico.
Ma la notizia non gli fece impressione. Era evidente che per lui il danaro e la potenza non rappresentavano nulla. Ciò che contava era la terra, la casa, la grande famiglia riunita, i paesani che si levavano il cappello quando i padroni passavano. Possibile che gli altri non sentissero quello che sentiva lui?
E mi guardava con un’aria assorta e svanita. Ecco: come un sacerdote sulle rovine del tempio.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 15.05.35

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Citazione: Adriano Grego, “Il maggiordomo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2120.