Quando i critici sbagliano (dettagli)
Titolo: Quando i critici sbagliano
Autore: Lorenzo Gigli
Data: 1936-08-04
Identificatore: 1936_73
Testo:
Quando
i critici sbagliano
Florilegio delle «cantonate» - Le grandi polemiche dell’Ottocento - Invettive contro Dante - Anche l’Ariosto condannato - Goldoni e gli occhiali del Baretti - Un nemico del Foscolo - «Dal Manzoni si deve pretendere di più... »
Un critico musicale oggi dimenticato. morto intorno al 1850, scriveva d'una composizione di Beethoven: « Quest’opera è un’onta. È impossibile non riconoscere che la musica di Beethoven è una musica d’ubriaco. Non ne rimarrà nulla ». Reciso, questo giudizio non si può negare che lo sia. Ma il critico che lo ha espresso con tanta sicurezza viaggia, nel tempo, in buona compagnia. Vaie a dire che, a lui oscuro e obliatissimo, s’affianca una falange di critici e di scrittori illustri e per varie ragioni tuttavia presenti nel mondo dello spirito i quali portano la responsabilità di giudizi altrettanto recisi e letali sul conto di contemporanei e di maggiori che la posterità ha poi riconosciuto per grandi.
Condanne e difese
Cantonate, i critici ne han prese in ogni epoca, grandi e piccine, memorabili e no. Esse sono registrate nelle loro opere, e a volerne compilare un florilegio, che riuscirebbe un libro assai dilettevole e istruttivo, e di grossa mole, bisognerebbe spendere molto tempo, sia pure lasciando da parte quei giudizi appassionati che sono la conseguenza d’un dato momento storico o l’aspetto di polemiche e battaglie letterarie famose: quelle dell’Ottocento, sopra tutte, la battaglia romantica, la polemica naturalista, la reazione del simbolismo, dove volta a volta grandi e minori pontefici come Flaubert e Victor Hugo, Baudelaire e Verlaine, Maupassant e Zola, videro sfilare la critica a bandiere capovolte davanti alle proprie statue ideali. Codeste polemiche, del resto, non si esauriscono mai, rinascono ad ogni scoccare di cinquantenario o centenario, ed è di ieri la ripresa della questione Victor Hugo la cui grandezza è stata revocata in dubbio da più d’uno scrittore o negata addirittura da altri, che, come l’accademico Farrère, sono con l’autore delle Orientales inconciliabili.
Nessun grand’uomo del resto andò mai libero da detrattori; figurarsi i poeti che, come si sa, son gente difficile, puntigliosa e piena a ombre e nemici li provocano.
C’è passato Dante. Anche prima che il padre Bettinelli lo prendesse a partito nel modo che tutti sanno, non eran mancati i critici severi; e già nel secolo XV si notano alcune « invettive » di più o meno chiari ingegni contro il padre della poesia. Ma qui si vuole soltanto ricordare qualche giudizio autorevole, di critici cioè che meritan riguardo; e allora ecco il Bembo che, pur non risparmiando a Dante le lodi, gli preferisce, e di gran lunga, il Petrarca; e il Tassoni che trova nella Commedia versi rozzi e sgangherati e ne riprende acerbamente l’autore. Poi venne il Bettinelli, contro il quale Dante fu difeso da Gaspare Gozzi; e sul principio dell’Ottocento soccorse il Perticari con la sua dotta « difesa » della poesia e della lingua di Dante. Ci sarebbe anche da fare una storia dell’antidentismo moderno: accontentiamoci di citare Le bruttezze di Dante di G. Ricciardi (1879), non ultimo di una serie di volumi e opuscoli in cui molti valentuomini le spiattellano al poeta tonde così.
Giù per li rami delle nostre lettere sarebbero parecchie le soste da fare a prender atto di propositi e giudizi balordi. Non ne andò immune l’Ariosto, il quale tuttavia ha una corona d’omaggi italiani e stranieri forse più ricca d’ogni altro. (Il Voltaire, tuttavia contraddicendosi poiché poco prima lo ha negato, afferma: « L’Ariosto è il mio dio; tutti i poemi mi annoiano tranne il suo »). Qualche riserva la fece sul suo conto il Leopardi: « Non aveva somma arte, ma sommo ingegno, pulitissimo, ma non corrotto, e meno poi ripulito »; e lo condannò senz’appello, in nome della morale, Cesare Cantù: « Degli scherzi dell’Ariosto che travolge le idee di virtù, che divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il vizio e seconda gli istinti voluttuosi, forse la patria trasse più mali ch’ella stessa non sospetti ».
Dal Machiavelli al Goldoni
Si capisce l'antiariostismo d'un uomo come il Cantù, comè si capiscono le ire degli ecclesiastici contro il Machiavelli le cui opere, diceva il cardinale Polo, son state scritte col dito del diavolo: la battaglia regolare fu iniziata dai Gesuiti ancora nel secolo XVI e continuò sino al Saggio della sciocchezza di Niccolò Machiavelli del Lucchesini, che i librai chiamarono « Le sciocchezze del padre Lucchesini », e non avevano torto. Ammirato e vilipeso, consultato e negletto come pochi, il Machiavelli patì assalti ispirati assai più dall’ideologia che dal senso critico, e la battaglia sul machiavellismo è tuttora in corso. Il Giordani, e non lui soltanto (anche il conte di Cavour, se non erriamo), gli preferì il Guicciardini, giudicandolo più profondo politico e miglior conoscitore delle cose e degli uomini. « Il Guicciardini uccide sè col suo peso » disse invece un contemporaneo, Sperone Speroni, ma nei secoli posteriori nessuno gli ha fatto eco.
Uno degli errori critici più famosi della letteratura italiana è il giudizio negativo del Baretti sul teatro di Carlo Goldoni, quattro commedie del quale sono minutamente analizzate nella « Frusta letteraria »: Il teatro comico, La bottega del caffè, Pamela fanciulla e Pamela maritata; e la conclusione eccola: « Nessuna di queste quattro commedie vorrei averla fatta io, per quanto ho cari questi occhiali d’Inghilterra che porto sul mio naso aquilino e senza i quali non potrei scrivere una riga nè al lume del giorno nè al lume della mia lucerna ». Il Teatro comico è così giudicato: « Commedia tutta balorda e tutta cattiva dalla prima sino all’ultima parola ». L’analisi della Bottega del caffè si chiude con quest’apostrofe: « Oh gloriosa Italia, i bei Molieri che vai producendo! ».
E su codesto accostamento al Molière il critico insiste, burlandosene, quasi ad ogni passo, come si burla delle pretese goldoniane di riformare il teatro, e, a proposito delle due Pamele, della insufficente conoscenza che l'autore dimostra della società inglese dove ha più collocato l’azione delle commedie. Per il critico piemontese, il Goldoni è un poetastro, e poiché il Voltaire gli è amico, addosso al Voltaire, reo di giudizi balordi sulla nostra poesia epica e sul teatro di Shakespeare. Ma la causa Goldoni-Baretti è giudicata da tempo, ad onta di certe velleità di resuscitare ogni tanto la polemica goldoniana.
Tutte le occasioni son buone per litigare. Il centenario della morte di Vincenzo Monti, otto anni fa, ripropose la questione del suo talento poetico e della sua volubilità politica; e quanto al primo più di uno ripetè la sentenza dell’Alfieri: « I versi del Monti rassomigliano a quei bocconotti di Roma che vanno mangiati caldi caldi perchè, raffreddati che siano, nausea cagionano e disgusto »; e circa la seconda è superfluo ricordare quel che ne dissero gli scrittori del Risorgimento.
Un giudizio da incastonare è questo di Pietro Giordani sul Foscolo: « Non ho mai stimato il Foscolo: pessimo di cuore, mediocre assai d’ingegno, men che mediocre di dottrina, cattivo assai di gusto, gran ciarlatano. Non ho mai capito come tanti ne abbian fatto un idolo »; e dichiarando le proprie simpatie al candido poeta bresciano Cesare Arici contro la cui fama « latrò Ugo Foscolo », definiva i Sepolcri « fumoso enigma ». Una polemica intorno al Foscolo si accese fra il Tommaseo, che lodatolo come artista lo stroncava come uomo, e Giuseppi Mazzini il quale dichiarò repugnargli le « insinuazioni gesuitiche » del dalmata. Costui rispose con una lettera dove il « signor Mazzini » è tacciato di declamatore.
Il « fumoso enigma »
Non aliena da censure e da riserve (disse tra l’altro: « Dall’ingegno e dall’animo del Manzoni si deve pretendere di più »!), ma in tono generalmente ammirativo è la critica del Tommaseo nei riguardi del Manzoni. Sul conto del quale si cita spesso questo passo di una lettera del Leopardi al libraio Stella: « Del romanzo del Manzoni, del quale io ho solamente sentito leggere alcune pagine, le dirò in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano molto inferiore alla aspettativa; gli altri generalmente lo lodano»; dimenticando d’aggiungere che il Leopardi scriveva più tardi, con maggior conoscenza di causa, al padre: « Ho piacere ch’ella abbia veduto e gustato il romanzo cristiano del Manzoni. È veramente una bell’opera; e Manzoni è un bellissimo animo e un caro uomo ».
E chiudiamo con un giudizio del Mazzini su Vincenzo Gioberti: « No; Gioberti, il gran sacerdote della setta, non era filosofo; e l’essere egli stato generalmente riconosciuto siccome tale dimostrerà a quali poveri termini fossero ridotti in Italia gli studi filosofici ». Ma qui la critica si vela il volto dinanzi alle violenze della passione politica.
Lorenzo Gigli.
Collezione: Diorama 04.08.36
Etichette: Lorenzo Gigli
Citazione: Lorenzo Gigli, “Quando i critici sbagliano,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2289.