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Titolo: Furbizia e ingenuità di Pea

Autore: Arrigo Benedetti

Data: 1936-12-17

Identificatore: 1936_99

Testo: Furbizia e ingenuità di Pea
Pea è col Forestiero (Vallecchi, Firenze, 1937) al suo primo romanzo. Anche gli altri libri ebbero quel sottotitolo, ma non so se con giustezza; del resto, non è su questo punto che si deve insistere. Romanzi o no, i primi libri di Pea facevano a meno della distensione narrativa occorrente nel raccontare. Il Moscardino, il Volto Santo, il Servitore del Diavolo erano quasi taccuini di ricordi; scritti col distacco della memoria. Ma Pea non ha continuato il suo taccuino, che non era, tanto per intenderci, quello tenuto di sera in sera; le qualità letterarie e intellettuali di chi tiene un diario intimo mancano del tutto allo scrittore lucchese. Ne è lontano le mille miglia. Pea è un uomo attivo, che, avendo doti di scrittore, chiarisce definitivamente i suoi ricordi sulla pagina. Ma su questo punto occorre avvertire il lettore, come Pea se emigrò, se viaggiò, non fu romanticamente, per gusto di cose nuove o di avventure eccezionali. Andato in Egitto, lavorò alla costruzione di ferrovie, o in officine; poi sui mercati. Notizie queste che magari è difficile desumere dai suoi racconti, siccome quando scrive Pea altro non sa dirci all’infuori di quanto lo ebbe ad impressionar nel profondo. Il resto non c’entra nella sua prosa. Egli è scrittore di precise commozioni liriche, non di tipi o di avventure; anche se di tipi e di avventure deve averne conosciuti assai. Pea spesso si ferma alle allusioni; nel racconto scritto come nel conversare, dove specialmente gli servono il balenìo dello sguardo, i movimenti rapidi della mano; complementi alla parola che nella scrittura si perdono. E sì che sono complementi utili perchè un personaggio evocato da Pea abbia una evidenza definitiva e comunicativa. È che il Pea non abbisognante di complementi e di ammicchi esiste, ma altrove, al di fuori del suo raccontare: in quello che canta, che narra cantando. Allora sì che abbiamo da lui pagine che sono una meraviglia. Stanno a premio dei lettori che ebbero fiducia in uno scrittore tanto poco ameno. E ce ne sono di tali pagine, sempre in ogni suo volume. Nella prosa cantante sta il meglio di Pea: di quello di ieri come di quello d’oggi. Pea è poeta che non ha progredito, e niente di strano perché nessun poeta conosce progressi. Progredisce il mestiere, o magari si purifica e si chiarisce la vena. Pea no; egli non ha progredito nel mestiere, e la sua vena fu chiara fin da quando lo spinse alla penna. Enrico Pea resta oggi intimamente lo scrittore di vent’anni fa, di quando scriveva filastrocche e canti popolari (Lo Spaventacchio). E tutto sta nell’andarla a scoprire tale sua coerenza, salva sempre anche attraverso alcune avventure letterarie che la sua imperizia scopre per occasionali. Egli è lo scrittore del parlare figurato. Basta l’accenno ad un paragone, e il suo estro si avvia, lo segue. Che so: quel giovanottino impomatato pare un galletto? Ebbene per Pea smette di essere un uomo: è un galletto. Ed è inoltre lo scrittore delle stagioni e della natura nel suo fervore continuo e nascosto.
Ma soprattutto merita tener conto come Pea, fin dai primi anni della sua avara operosità letteraria, mostrò la sua provenienza, o meglio da quale parte gli venga quel tanto di educazione all’arte che volere o no occorre anche ad un forte istinto. Pea la ebbe la sua educazione all’arte: e si guardino i dialoghi sparsi qua e là nei suoi racconti, e le scene che escono da quel dialogare. Li si sente, sùbito, un uomo che conosce il teatro: forse soprattutto la mano di uno che lo ama, il teatro, e che lo ama come poetica figurazione, come un bel quadro che accende la fantasia. Nel Forestiero ce ne sono di queste scene, e ce n’erano un po’ da per tutto, magari più rapidamente, meno distesamente. Giubbino, un figlio di papà, timido quanto prepotente e stizzoso, s’innamora di Stella Busi, una comica venuta chissà da dove a dar recite nel teatro del paese con la sua povera compagnia; presa la sua cotta vuole senz’altro sposarla; don Trona lo vorrebbe distogliere da sì scandaloso connubio, e la discussione avviene con teatralità, con teatralità popolare. Vengono in mente le scene del teatro dove l’amoroso prende su di sé tutti gli applausi, mentre il tiranno per misurar il successo ha da contare i fischi e gli insulti. Ma occorre intenderci: Pea di fronte ad un simile genere di spettacoli (cioè alle commedie date da compagnie simili a quella di Stella Busi, o ai Maggi, o ai Bruscelli) non ci sta con l’occhio di letterato che goda lo straordinario della cosa, sentendosi, sotto sotto, superiore alla gente che ci si diverte; tutto al contrario. Pea si accende davanti a tali rappresentazioni, giurerei, con abbandono. La sua sorte di scrittore è singolarissima. La Voce, La Ronda, Il Selvaggio, Solaria, che sono i nomi delle riviste e delle tendenze operanti nella nostra letteratura contemporanea lo toccarono solo alla superficie; i Maggi, i Bruscelli, le commedie dei teatrini versiliesi gli aprirono invece l’intelligenza all’arte. Davanti a tanti modi letterari Pea è un furbone, uno che la sa lunga; ma poi la furbizia lo mette di mezzo, come sempre accade che essa faccia nella poesia; davanti invece ad uno di quegli spettacoli, dove vige una moralità cruda, per cui nessun sofisma infirma la bellezza del bene e attenua, o giustifica la bruttezza del male, lui dovette, e deve ritrovarsi ancora, sensibile e felice come un ragazzo.
Arrigo Benedetti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.12.36

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Citazione: Arrigo Benedetti, “Furbizia e ingenuità di Pea,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2315.