Ritorno alla vita (dettagli)
Titolo: Ritorno alla vita
Autore: Riccardo Marchi
Data: 1932-03-02
Identificatore: 1932_52
Testo:
Ritorno alla vita
Com'è strana la città vista dopo tre anni di assenza! I muri non sono più quelli che lasciammo: danno una strana sensazione di decrepitezza; mancano di stabilità, sembra, e gli uomini, ah! come sono mutati gli uomini dal giorno in cui partimmo per la guerra adolescenti quasi senza conoscere la vita! Diversi, incurvati, pencolanti, e le donne — quelle che lasciammo bambine — vanno orgogliose della loro maturità e della lascivia che suscitano passando, mentre le altre — quelle che prima non si potevano osservare senza rimanerne turbati — appaiono inverosimilmente grasse, con la pelle della fronte floscia e rugosa, irriconoscibili.
Diana mi accompagna in queste singolari pellegrinazioni per le vie della città. Fa piacere appoggiarsi ai suo braccio di donna che conosce tante cose che io non so. Siamo cresciuti nello stesso quartiere operaio ed’è stata mia compagna di scuola. L’ho ritrovata matura con gli occhi cerchiati e dentro un fuoco sempre acceso come una perpetua ansia di vivere.
Al suo fianco dimentico quasi quest’aria d’immensa corsia che c’è nel mondo. " O forse io, io solo sono ammalato e questo ritorno alla vita è come un’adolescenza nuova che mi dà vertigini e turbamenti: un’appendice quasi delle allucinazioni patite in trincea e in ospedale da dove sono uscito da pochi giorni.
Se le faccio osservare certi strani conturbanti aspetti della vita nuova, mi carezza e mi dice: — Di che t’immischi, ragazzo?
Per lei non sono che un ragazzo. E’ incantata forse dai miei riserbi e dal mio languore. Una volta ho pianto di tenerezza sul suo seno. Ma questa mia tardiva pubertà esplode talora in un’ira sorda che deriva dallo scoprirmi così malinconico e maldestro. Diana è la vita ed io non so ghermirla.
Eppure lei deve avere intuito cosa c’è nella mia aria trasognata e nel mio passo strascicato: qualcosa che non troverà mai negli altri uomini: per questo mi preferisce e mi dice carezzevolmente: — Ragazzo... — Lo sono forse, ma questa acerbità di fanciullo precocemente invecchiato, dalle rughe fonde e la carne ammalata, mi dà tanta tristezza.
* * *
Mi sono sorpreso quest’oggi a narrarle con qualche millanteria alcune storie di guerra. Lo facevo a mente fredda, sforzandomi di sciogliermi da quell’alone di incubo che mi avvolge specie durante il sonno e in cui tornano certi aspetti di vita vissuta.
Mi ascoltava incantata incrociando le dita della sua mano nelle mie e stringeva, stringeva forte quasi le premesse farmi sentire come vibrava sotto le mie parole. Poi cominciò a ridere: — Il mio eroe, il mio piccolo eroe... — esclamò. Rimasi serio come mi avesse schiaffeggiato. — Ti ho offeso forse? — rise ancora ed aggiunse: — Sei uno strano ingenuo bambino... Ma ecco qua il mio amico. Perdona un momento, caro...
Porse alcune monete ad un ragazzo paralitico seduto all’angolo della strada su di un carrozzino a quattro ruote.
Ve lo avevo lasciato tre anni prima. Ma non era più un ragazzo, per quanto a prima vista nulla fosse cambiato in lui. La stessa positura. Il carrozzino 16 stesso, malgrado che lo contenesse meno comodamente la coperta grigia che gli copriva le gambe paralizzate la stessa, non mutata In voce questuante. Di diverso solo la barba rada e ispida cresciuta sotto il mento divenuto leggermente pingue, negli occhi un fuoco strano, indecente davanti a Diana.
Allora l’ira mi ha vinto. L’ho salutata bruscamente. Ella, stupita del1a mia stranezza, mi ha inseguito con la sua bella voce: — Perché così? Perché...
C’erano strani fermenti nell’ aria arroventata dal tramonto e fra gli uomini. Ho avuto quasi l’impressione che a notte fonda sulle piazze, dietro i cavalli di frisia, avrebbero avvampato crepitando le mitragliatrici.
* * *
La città fluttuava stasera alle nostre spalle fra i vapori della prima ora notturna. Diana si arrestava con me per osservare la piana da un fitto bosco di pini che si alza sopra un breve declivio oltre il quale sono i campi ricchi di messi delimitati, a due chilometri di distanza, dalle falde boscose delle colline. Per procedervi insieme è stato necessario calpestare le felci che si piegavano sotto i nostri piedi e proseguire in una specie di radura disseminata di piccoli aghi di pino. La borraccina di smeraldo si mutava tutt’intorno in un tappeto giallo frangiato dalle chiazze cupe del terreno mentre i tronchi, in cui stingeva l’ocra delle scorze spesse e rugose, sorgevano maestosi come sculture antiche.
— Che avverrà laggiù? — pensavo guardando la città — Mi sembra di esserne lontano da tanti anni. — Lei mi guardava con una cert’aria come per dirmi: — Di che t’ immischi, caro?
Intanto i tronchi secolari che uscivano dal bosco delimitando i campi davano una strana impressione di mobilità: rabbrividivano quasi sotto l’algida carezza della notte, precipitavano, si dissolvevano nella tenebra. Il terreno diveniva molle, un po’ flaccido, come se nell’atmosfera pregna di resine si fossero mescolate sostanze impure sino a dare alla terra una penosa impressione di rovina e di dissolvimento. Non sentivo più la presenza di Diana.
— Andiamo — mormorò alle mie spalle —; ho paura.
Traversando i sentieri campestri si entrava nella strada provinciale tutta bianca di polvere e irrorata a momenti dai fanali delle automobili.
— Sai cosa pensavo lassù? — le ho detto volgendomi verso l’altura che staccava nitida contro il cielo terso.
— Che cosa?
— Di trovarmi nella trincea davanti alla pineta di Zagomilla, un bosco i cui pini furono tutti divelti a colpi di granata e nei cui solchi profondi provocati dagli scoppi seppellivamo i morti.
Mi è parso dapprima di scorgere nei suoi occhi un’indicibile impressione di languóre. Poi mi ha carezzato la fronte posando le dita sulle mie palpebre ed ha sussurrato ancora una volta: — Ragazzo...
Dalla mia finestra osservo ad occhi socchiusi un bastimento che sta doppiando il porto. Vorrei potermi addormentare con la labilità della vela che si affloscia sull’antenna e nulla ricorda dei venti e le tempeste che l’hanno sbattuta. Il sole, investendomi in pieno, mi infonde però uno strano ottimismo. Penso: — Perché ho cacciato Diana dalla mia vita? Mi ha offeso la sua aria materna, o la sua scaltrezza, o il suo passato che non m'interessava quando tutto non era che un giuoco allettante, oppure mi ha punto il dubbio ch'ella potesse un giorno vantare la sua superiorità per avermi intuito per prima? Dipende certo dal sangue caldo che da vari giorni ha cominciato a fluirmi per le vene. Ma come ci si scopre egoisti e cattivi quando si diventa uomini! Ne ho quasi rimorso. Eppure il passato — gli anni della guerra sobbalzati di piacere in piacere — non esisteva già più per Diana. Rinasceva discoprendo i miei languori di fanciullo tardivo. Forse potevo io stesso sorprenderla in quella singolare disposizione d’animo e plasmarla a mio modo, rifarle per me un’anima nuova. E’ tornata invece a vivere la sua vita folle e spensierata. Ma se la incontro all’angolo di una strada, cosi elegante, vaporosa, profumata, non la riconosco quasi. Gli occhi, solo gli occhi sono i suoi, sempre con quell’arsura. Mi guardano fisso mentre io abbasso i miei vergognoso e mi sembra di udire ancora una volta una domanda disperata: — Perché?
Perché?
Riccardo Marchi.
Collezione: Diorama 02.03.32
Etichette: Riccardo Marchi
Citazione: Riccardo Marchi, “Ritorno alla vita,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/308.