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Titolo: L' agnello di San Giovanni

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1931-06-10

Identificatore: 49

Testo: L’agnello di San Giovanni

Quanta parte il mio aspetto fisico abbia avuto nella scelta, non so. Certo è che quei dieci giorni di scarlattina m’avevano scarnito non poco; poi una coda di bronchite e qualche fiocco d’albumina da dissipare a furia di regole e d’astinenze. Astinenze che ricorderò sempre fra le cose più crudeli sofferte in vita mia: quella belva annidata nel vuoto dello stomaco, quella rabbia che poi scoppiava in un pianto miserevole...

Al principio di giugno, riuscii finalmente a spezzare gli ultimi freni e mi gettai sui cibi; ma non si rifanno da un giorno all’altro le carni ed i colori, cosicché una settimana dopo, quando Monsignor Arciprete passò in rassegna i ragazzi del borgo per designare quello che, nell’imminente processione del Corpus Domini, sarebbe comparso con le insegne idi San Giovanni, vale a dire vestito d’un semplice vello di pecora e con in braccio un agnellino vivo, i suoi occhi subito si fermarono sulla mia sparutissima figura. — Ecco — disse toccandomi una delle spalle che pungeva attraverso l’abito — ecco uno che viene dritto dal deserto e che per quaranta giorni s’è cibato di sole locuste.

Ma smortezza e magrezza non sarebbero state titoli sufficienti a procurarmi un onore cosi grande: onore ed anche lucro, poiché l’agnellino, secondo le magnifiche consuetudini del mio paese, diventava, dopo la cerimonia, proprietà del San Giovannino. Quell’ottimo Monsignore, sempre tenendo stretta in mano la mia acutissima spalla, mi guardò nel fondo degli occhi, da intenditore, e disse: — Ma si, ma si... — E tutti intesero che quelle due paroline volevano dire riconoscimento dei valori morali indispensabili anch’essi, e non solo i fisici, ad un premio di tanta importanza.

Inutile raccontare la processione, né forse ci riuscirei. Tutto ho in mente: e le strade parate di stoffe, di fronde e di fiori, e le campane e i canti, e odore di rose e d’incenso, e odore di bucato e di spico a rasentare le lenzuola spiegate lungo i muri. Mi par di vedere anche me stesso e quella scarsa pelle di pecora, che lasciava apparire nude nude fin quasi alle cosce le mie povere gambe tremanti di. vergogna. Anche un braccio sporgeva, e tutta una spalla giù giù fin sotto la scapola, c un saggio delle costole... Il mio non comune aspetto di giovane santo del deserto mi torna dinanzi con quell’evidenza oggettiva che, a distanza di tempo, assumono le cose nostre; e potrei, volendo, descrivere. Ma in nessun modo saprei ridire il complesso turbamento ch’era in me; orgoglio e trepidanza, felicità e angoscia. Mi parve un momento che la coreggia girata intorno al vello pecorino s’allentasse; e pensai con terrore a quello che stava per avvenire: con un terrore che si complicava con uno strano senso di piacere. E mi stringevo forte al petto la bestiola, che ogni tanto dava un sussulto, mandava un vagito. Affondavo la faccia infocata grondante nel caldo untuoso di quella lana viva, nel selvaggio odore.

Impossibile, dico, tradurre in parole quella specie di sogno che nemmeno finì come gli altri sogni, nel momento di riaprire gli occhi. Né giovò il bagno che mi fecero fare appena tornato a casa, l’abito da ragazzo dei tempi moderni che mi rimisi. Perdurava in me un animo esaltato, che ben avvertivo e nulla tentavo per ridurlo a ragione. E mi tenevo in disparte taciturno e scontroso, come obbedendo ad un crudo pudore; né perdevo d’occhio il mio agnello e lo sottraevo con diffidenza e gelosia alle carezze ed agli sguardi altrui. Gli avevo fatto con certi stracci un giaciglio accanto al mio letto.; gli portavo erba, insalata, pane inzuppato nel latte, petali di rose; perfino tentai di fargli ingoiare pezzetti di zucchero. Lo traevo con una cordicella a brucare nel giardino o lungo le siepi fuori dell’abitato, nelle ore che non ci fosse gente in giro. Se qualche ragazzo mostrava di volersi accostare, lo tenevo lontano con gridi e sassate.

Per alcuni giorni l’andò cosi; ma poi quelle mie stranezze cominciarono a sembrare eccessive, e niente affatto gradevole sentir sotto i piedi per tutta la casa quei confettucci neri, e spregevole l’odore del piccolo ospite.

Pure tolleravano. Uscivo, ho detto, da una lunga e grave malattia tutto scosso e smarrito; e gli strascichi del male: eccitabilità, tetraggine, luna a rovescio, anziché svanire normalmente, si proseguivano nelle forme d’un’ostinazione cocciuta, d’una capricciosità bizzarra e prepotente. Troppo s’erano chinati il babbo e la mamma sul mio letto mostrandomi la loro povera anima trepidante; troppo sapevo, io, quanto fossi padrone della loro anima. E ne abusavo. E, con questo, non credo d’essere tanto peggiore degli altri uomini. Tutti gli uomini, più o meno, abusano dell’amore altrui quando lo credono privo di limiti e di resistenza.

Ma no: non c’è cosa che non abbia un limite; e un giorno che, intontito dall’afa, m’ero buttato giù sul sofà di sala, udii tra la nebbia di quel mezzo dormire un discorrere del babbo e della mamma nella stanza vicina: un discorrere come quando non si vuol turbare il sonno di qualcuno (e certo credevano ch’io dormissi), ovvero, no, come quando si dicono cose segrete, che nemmeno l’ària senta. Perciò aguzzai l’orecchio; ed ecco, infatti che parlavano di me. Di me. del mio umore insopportabile, della necessità di venirne a una... Parole e frasi staccate; ma tutt’intera, nella sua odiosa chiarezza, mi giunse la conclusione del babbo: « Bisogna far scomparire quella maledetta bestia... domani mattina, prima che si svegli... ». E afferrai, nel guazzabuglio delle parole che seguirono, il nome del Carlotta, il macellaio.

Nulla dissi né feci durante tutto il pomeriggio, che potesse dare ombra. Ma quando fu venuta la notte e tutti si furono coricati, uscii di sotto le coltri dove aspettavo vestito e calzato, presi in braccio il mio piccolo amico e fuggii. Nessuno per le vie; neppure un lumicino nelle case; docile e silenzioso l’agnellino, al quale per precauzione tenevo stretto in pugno il muso.

Quando fui in aperta campagna, deposi in terra l’agnellino, che mi segui senza che dovessi tirare la corda. E mi misi a camminare di buon passo nella direzione delle montagne che scorgevo lontane lontane nell’estremo orizzonte, simili ad una tenera massa azzurrognola. Tutto il cielo era occupato da una nuvola uguale, d’un bigio giallastro, che non lasciava apparire il disco della luna, ma spandeva sulla pianura e sui colli una mezza luce smorta smorta. Laggiù invece, dove finiva la terra, tutto si mostrava chiaro e felice; ed io, camminando con gli occhi fissi nella visione di quelle alture d’un colore cosi dolce, pensavo cose vaghe, che nemmeno erano pensieri. Andavo dritto, libero di dubbi, come ad una mèta che avessi in mente; e nulla avevo in mente, tranne una decisa idea di fuga ed una confusa immagine di solitudini favolose di cui vedevo laggiù le porte dorate. Di tanto in tanto mi ritornavano nell’orecchio i propositi omicidi del babbo e il silenzio connivente della mamma; e un tuffo di rancore mi dava su dal fondo del petto, e ripigliavo teneramente in collo il mio povero amico, come se la crudeltà umana fosse ancora li alle nostre spalle, con il coltello sospeso. Poi lo rimettevo giù: ma si faceva trascinare, s’impuntava, tentava di rifugiarsi tra le spine delle siepi.

Ed io me lo ripresi definitivamente in braccio e per un lunghissimo tratto proseguii cosi, finché, non potendone più, m’abbandonai sul margine della strada. Né era sola stanchezza, ma abbattimento d’animo, che diventò vera angoscia appena mi fui seduto in riva a quella strada pallida che andava andava tra file d’alberi cattivi e brutti cespugli che parevano uomini rannicchiati, e non il suono d’una voce, d'un passo, il rumore d’un carro... Ritornare? Un momento prima avrei scacciato con indignazione il vile pensiero; ed ora, invece, eccomi li a pensare la felicità che è stendersi nel proprio letto e avere una casa, un paio di genitori... Tuttavia resistetti, anche perché avrei dovuto, per tornare indietro, rimettermi in piedi e rifare, con quelle gambe dolenti, quell’immenso cammino. Mi strinsi al mio compagno e mi lasciai andar giù sulla proda erbosa. E subito m’addormentai.

Quanto il mio sonno sia durato, non so. Un sonno duro come la pietra fu certamente, uno di quei sonni che, riaprendo poi gli occhi, si resta Il senza potere per un bel pezzo raccapezzarsi. Molto penai a capacitarmi di quella strada, di quelle piante che vedevo disegnarsi nell’alba torbida. Poi, di colpo, la memoria mi si schiari; e il pensiero d’essere fuggito di casa mi diede una brutta stretta al cuore. E mi volsi a cercare colui che m’era costato un tale eccesso per sottrarlo alla morte; e nulla vidi, né vicino né lontano, che s’assomigliasse al mio agnello. Esplorai i cespugli, il bosco, la strada; feci il verso tremolante degli agnelli e delie loro madri pecore: nulla. Se n’era andato per i fatti suoi la bestia sconoscente. Mi aveva abbandonato mentre dormivo dalla stanchezza procuratami per mettere in salvo la sua vita.

Tanta ingratitudine aggiunta alla coscienza dell’enormità commessa mi fece un gran male e scoppiai in singhiozzi. E solo mi quietai un poco quando sopraggiunse un bravo cavallaro che andava giusto nella direzione del mio dolce paese col suo baroccio carico di gabbie piene di polli. Dopo quattro parole, mi confortò a salire. Seduto sulla più alta di quelle gabbie, ancora singhiozzavo di tanto in tanto, ma senza più cordoglio, cosi per coerenza, o per accompagnare alla mia maniera il pigolare di quei nuovi compagni che sporgevano le testine ed io sentivo con la punta delle dita il nudo tiepido d’una cresta.

Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.06.31

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Citazione: Francesco Chiesa, “L' agnello di San Giovanni,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/49.