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Titolo: Almirante Roseo

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1932-05-25

Identificatore: 1932_243

Testo: Almirante Roseo
L’idea d’un paradossale personaggio così non è certo di quelle che potessero germogliare nel mio moderato cerebro d'allora. Nel cerebro del mio amico, oh sì: sotto quella selva di capelli rossastri, nei quali pareva che covasse un incendio. Me lo vedo ancora dinanzi, il mio amico, come la prima sera che ci trovammo nella sua camera a gettar le basi del nostro romanzo: io seduto al tavolino, carta penna calamaio, contegno da scolaretto bravo che sa prendere appunti e note; lui supino sul letto, con la scompostezza d’un mortale atterrato dall’agitante dio... Poi, di colpo, balzava dritto sul busto, buttava le gambe giù dal letto e, appoggiato alla sponda, diceva: — Ecco. Scrivi.
Io scrivevo docile docile, anche quando mi parevano, li per li, cose poco convincenti. Cose assurde; ma poi, sollevando gli occhi in faccia al mio amico, mi sentivo svanire ogni voglia di far osservazioni. Impossibile, dinanzi ad una faccia cosi: quel mascherata maiuscolo di faccia, d’un rosso febbre tutto uguale, in cui sgargiava il celeste spiritato degli occhi. Accettavo tutto, come una di quelle necessità che diventano di mano in mano persuasione. E anche mi adattai, senza sentirmi menomamente offeso, alla mia modesta parte di collaboratore subordinato, disposto a lavorare come a lui piacesse, entro gli schemi da lui prescritti.
I primi capitoli, naturalmente, li scrisse lui; e quando, una settimana dopo, me né diede lettura, mi sentii travolto come un fuscello da un torrente in piena. Che importa se acqua limpida o no, rispettosa o no degli argini? Un fuscello non è un critico di professione, e si lascia portar via. Raccontavano quei primi capitoli alcune fra le antecedenti imprese del nostro eroe: una specie di gran mostro tra il santo e l’avventuriero, tra il filantropo e il boia, tra l’uomo di questo mondo e il personaggio da leggenda, con un piede sul sodo e l’altro piede sospeso sugli abissi. Ma fra tanta varietà, una cosa stava ferma nel centro di lui: la passione della giustizia, il proposito di difendere i buoni e di combattere i tristi; ed a tale fine egli adoperava tutti i mezzi più micidiali: ferro, fuoco, veleno, trappole, cataclismi, senza scrupoli e senza misericordia, nemmen rifuggendo dal travolgere, quand’era inevitabile, mille innocenti nel castigo ch’egli credesse di dover infliggere ad un unico scellerato. La giustizia umana, che è donna e quindi gelosissima, si adonta e infuria; ma sempre egli riesce a trarsi d’impaccio, senza lasciarle tra le grinfie un brandello d’abito, senza lasciarsi dietro né odore di sé, né impronte digitali... Un tale tradisce sconciamente i suoi doveri di marito e di padre, sperpera con le peggiori Veneri i suoi ultimi averi: un uomo cattivo come ce n’è. Ma non cosa da tutti i giorni: il castigo che lui, Almirante Roseo (tale, non so perché, il nome del terribile personaggio), gl’infligge: una stilettata in mezzo al cuore; nemmeno il tempo di lasciargli dire ahi. La stessa notte (poiché Almirante lavorava generalmente di notte) incontra lungo il fiume un tipo dalla lunga zazzera che passeggia brontolando e gesticolando. Gli si accosta e gli domanda: - Chi sei? — Risponde: — Sono il professor Ics Ipsilon, ed ho un’ora fa scoperta la dimostrazione matematica che Dio non esiste. Dimostrazione evidente, facile, che un bambino la capisce: qualche cosa come l’uovo di Colombo. Ormai il gran problema è risolto, e comincia per gli uomini una vita nuova... — E si piega a disegnare sulla sabbia le rette e le curve della sua dimostrazione. Almirante lo lascia fare; poi, di colpo, gli dà un urto e lo butta nel fiume... Si, perché quel professore o era un pazzo o era un savio. Se un pazzo, meglio liberarne il mondo, dove di pazzi ce n’è già troppi. Se un savio, meglio anche in tale caso sopprimerlo, perché la sua dimostrazione avrebbe aumentata l’infelicità del genere umano.
Sempre la stessa notte, il tremendo uomo fa deviare un treno, sul quale viaggia una lettera anonima perniciosissima, che guai se giunge a destinazione: meglio che tutto il treno, co’ suoi centocinquanta incolpabili passeggeri, rotoli nel burrone. Poi trova tempo di penetrare, travestito da demonio, nella camera d’un vècchio Don Giovanni per procurargli un po’ di salutare spavento che l’aiuti a svezzarsi; travestito da angelo, nella camera d’una bella crudele per dirle: « Finiscila di far penare quel poveretto... ».
Poteva bastare, eh, per una notte. Macché! Verso l’alba, passando per una piazza, vede di qua di là un tramestio di gente, e scale, secchielli, pennelli, fasci di carta d’ogni colore. Era la vigilia d’una gran battaglia elettorale, e quello stormo di attacchini s’affaccendava a tappezzare la città con i manifesti dei vari partiti in guerra. Legge cinque o sei di quei manifesti: l’uno più scemo dell’altro. « Una città dice — che delira cosi ha bisogno d’un calmante ». Fosse stata l’Africa, avrebbe fatto cadere sull’agitata città una pioggia di cavallette o di sabbia desertica, e sepolto quel dissidio di colori sotto un’unica coltre, verde o gialla, grossa mezzo metro. Fosse stato ancor in vigore il sistema di Tolomeo, avrebbe detto al sole di rimaner quatto sotto l’orizzonte una settimana. Nell’impossibilità di ricorrere a tali mezzi, che fa? Si trasporta di volo al serbatoio dell’acqua potabile, ubbriaca i custodi (facile: chi esercita un mestiere acquatico è portato per compenso ad amare altri liquidi), toglie loro di tasca le chiavi, e versa nel serbatoio mezza bottiglia d’un drastico di sua invenzione: cosi potente che una gocciola basta a far discendere a cento individui l’anima nelle calcagna. L'effetto fu quale si può immaginare: la quiete dopo la tempesta, per rubare un titolo al Leopardi.
— Ma, e quelli che non bevono acqua? — mormorai come si fa per provocare una beffa risposta di cui già siamo sicuri.
— Tutti bevono acqua. Domandane agli osti.
La risposta, alquanto banaluccia, mi sembrò in quel momento una meraviglia. E mi gettai, con l’entusiasmo di un neofita, nella traccia apertami dal mio stupendo amico. Quell’Almirante Roseo che, a tutta prima, aveva suscitato in me un movimento di diffidenza, come di solito gli uomini e le cose che non s’aggiustano nelle nostre cornici, diventò la passione de’ miei giorni, il sogno delie mie notti. Immaginare qualche nuova straordinaria impresa da aggiungere a quelle che l’amico veniva inventando fu, per qualche settimana, il mio unico ossessionante pensiero. Come andassero le cose della scuola, che giudizio facessero in Pensione de’ miei occhi assenti e del mio rispondere grullo, inutile dire; né molto saprei dire, poiché nulla vedevo che non fosse lo splendente faccione roseo del nostro Almirante.
Splendente e roseo come un di quei palloni gonfi di gas che i bambini tengono con una cordicella il di della sagra... Il mio amico s’era invece immaginato un Almirante in aperta antitesi col suo nome e con le sue grosse imprese: un cosuccio in sul fare d’un ragno da solaio, tutto testa e gambe, color polvere e andatura sbilenca. Ma finì con arrendersi, non forse tanto alla mia ostinazione quanto al fervore che mi sprizzava da tutti i pori. Egli conservava incontrastabile il privilegio dell’inventiva; ma era poi materia grezza, tracce e schemi che, per diventare cose vive, dovevo io soffiarci sopra il mio fiato. E giù pagine e pagine: chissà che roba! L’amico però ne era soddisfatto; io, cento volte più; e il mio entusiasmo saliva saliva fino a traboccare.
Credo che infatti traboccò; usci, voglio dire, dagli orli della finzione letteraria e m’imbevve tutto. Da semplice scriba delle gesta d’Almirante, diventai io stesso una specie d’Almirante, tutto invaso da una fanatica smania di proteggere, salvare, punire, risolvere con procedure sommarie i disordini del mondo, rubar il mestiere alla Provvidenza... Diventai, dal timido e sventato ragazzo che ero, una specie di Don Chisciotte: con questo di singolare, che sapevo assai bene di non essere un paladino e di non avere né mezzi né risolutezza per compiere la minima delle sognate imprese. Anche mi mancava l'animo del visionario, ma la fantasia lì per lì suppliva; e, immaginando spettacolose avventure, ne ricavavo un compiacimento quasi come se avessi davvero compiuto quei prodigi o stessi per compirli. Una sera, ad esempio, che avevo udito il mio buon signor Dimidio sospirare per la centesima volta a proposito di quel capo ufficio che gli ostruiva da dieci anni la via della promozione con le sue larghe spalle, ecco in che modo provvidi, mentre mi svestivo per coricarmi. Si fa cosi. Domani si fa entrare nell’ufficio dell’uomo dalle larghe spalle una bella segretaria: niente di più facile. L’uomo dalle larghe spalle perde la testa, perde il posto; ed il mio signor Dimidio s’accomoda nella direttoriale poltrona... E m’addormentai con la contentezza d’uno che avesse lì bell’e pronto sotto il guanciale il programma da eseguire il mattino dopo.
Gran dono di Dio questo poter pensare cose e cose. La maggior parte delle volte, poi, non se ne fa nulla, e si evita di fare sciocchezze. Una sola volta commisi l’errore di lanciarmi d’un salto nell’azione e me ne vennero guai. Ecco in poche parole.
Era verso la fine di maggio, e già in vigore nella nostra Pensione l’usanza estiva d’uscire dopo cena a far quattro passi. Quella sera, veramente, faceva un tempo tutt’altro che da passeggiate: nubi nere, tuoni, soffi d’aria cattiva, carica di polvere e d’immondizie. Gli altri rimasero a casa; io, nemmeno se il cielo fosse caduto a pezzi, dovendo recarmi dall’amico a leggergli certe pagine che proprio mi parevano un capolavoro e non m’avrebbero lasciato dormire. E uscii nella tempesta che scoppiava: cara, benvenuta tempesta, che stupendamente s’intonava con il putiferio de’ miei dèmoni scatenati. Ma, ad un tratto, ecco m’accorgo di non avere con me il quaderno del romanzo, dimenticato con gli scartafacci di scuola nell’aula di matematica. Ribatto indietro, e via di corsa verso il Liceo. Entro in portineria per chiedere che m’aprano l’aula, e mi vedo dinanzi, curva sulla tavola, con il volto fra le mani, tutta singhiozzante, scarmigliata peggio che una Maddalena nel deserto, la Lidia, la bella Lidia... Come una bella creatura così potesse essere figlia di quel brutto, brutale nostro portinaio e bidello, è uno dei tanti misteri; noi da tale contrasto si ricavava un motivo di più per guardarla con simpatia e ammirazione e tenerezza. Ogni volta che si passava per l’atrio, eran lunghe occhiate verso quel bugigattolo buio che ci mostrava, di là dai vetri luridi, la cara prigionierina bionda eternamente piegata sulla macchina da cucire. Ancor prima d’essere Almirante, avevo avuto qualche vaga idea di fare non so che in favore della povera vittima e in odio del suo orco; ma quella sera, a vederla piangere così, e, fuori, quel rumore di tempesta, e, nel mio petto, quel l’altro eroico tumulto, sentii ch’era venuta l’ora di fare e non più solo dì fantasticare.
— Lidia, — le dissi — perché piangi?
Nessuna risposta; un piangere più scrosciante.
— Lidia, — ripetei — perché piangi?
— M’ha picchiata... — le usci fra i singhiozzi. — Picchiata come una bestia...
— E dov’è quel mostro?
— Non so... Su nelle scuole... a scopare...
Mi lanciai su per le scale, come se fossi diventato, ma davvero e senza discontinuità, Almirante Roseo in persona. Ahimè, Almirante... Nemmeno avrebbe avuto bisogno di fare un passo, Almirante. Stendeva una mano ed un fulmine piombava dritto sull’odiosa belva. Io, ad ogni gradino, m’accorgevo di qualche cosa che mi mancava: armi, braccia, coraggio... Giunsi così, a piccoli passi titubanti, in punta di piedi, nel corridoio su cui davano le aule. Buio fitto ormai; di sotto l’uscio d’un’aula vidi una riga di luce; ascoltando, potei discernere lo stridio d’una scopa. Era li dentro il mostro. Essendomi chinato a spiare, urtai con la fronte contro la chiave rimasta nella toppa. Senza riflettere altro, le feci fare lento lento un giro, la tolsi dalla toppa, me la ficcai in tasca e giù a salti. Nella portineria la Lidia non c’era più. Uscii, attraversai sempre correndo mezza città sempre accompagnato da tuoni e lampi e, giunto al fiume, gettai dall’alto del ponte la chiave nelle acque tenebrose. La chiave adoperata a incarcerare un mostro dev’essere gettata almeno in un fiume, si sa.
Furono guai, e seri. Scoperto, sospeso dalle lezioni per due settimane; durante le quali (così libero d’impegni) nemmeno una riga scrissi del mio romanzo; né allora né poi. No, perché mi sentivo troppo spoetizzato; e non tanto per la disavventura capitatami, quanto per questo: se fui accusato e convinto del mio delitto, fu perché la cara Lidia cantò. Alla prima domanda: chi è entrato ieri sera?, aveva risposto: il Tale.
Tanta sconoscenza fu come un’acqua gelata che spense in me ogni ardore poetico ed anche altre minori fiamme, tanto che ce ne volle del tempo per rimettermi in tono. E solo dinanzi alla provata generosità di qualche donna sono tornato a credere che anche le donne possano essere creature generose.
Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 25.05.32

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Citazione: Francesco Chiesa, “Almirante Roseo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/499.