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Titolo: Enrico Pea e le sue avventure di terra e di mare

Autore: M.C.

Data: 1932-08-10

Identificatore: 1932_364

Testo: Enrico Pea
e le sue avventure di terra e di mare
Viareggio, agosto
Sfogliate uno dei tanti e famosi romanzi di Eugenio Sue, oppure di Montépin, o anche di Ponson du Terrail, che l’editore Sonzogno pubblicava un tempo a dispense illustrate, e riuscirete facilmente a trovare, in qualcuna di quelle vecchie incisioni, l’immagine perfetta di Enrico Pea. A guardarlo, oggi, con quel suo andare un po’ stanco e ondeggiante, la testa scapigliata, la tonda barba ispida e brizzolata da rabbino di Terra Santa, è impossibile non pensare ad un personaggio dei Misteri di Parigi o dell’Ebreo errante. Che egli abbia voluto o dovuto camminare parecchio si indovina. Ha avuto una giovinezza di vagabondo: e, qualche volta, non gli dispiace rievocarne qualche tappa, con i vecchi amici, al tavolo d’un caffè, oppure tra un atto e l’altro, passeggiando attorno al Politeama viareggino, di cui da diversi anni è l’impresario.
Una volta io gli ho chiesto come sia divenuto scrittore, ed egli mi ha risposto:
— Verso i vent’anni, quando ho incominciato ad imparare a leggere e a scrivere.
Così. Una giovinezza triste ed aspra la sua. Era ancora bambino, quando gli morì, in seguito ad un infortunio sul lavoro, il padre, che faceva il meccanico idraulico e lavorava per le segherie dei marmi, nella terra di Versilia. Del padre, Pea non ha che un confuso ricordo, legato ad un tragico episodio, di cui è un accenno nel Moscardino, quello di una notte nella quale i due fiumi di Serra e di Vezza inondarono il paesello natio sulle pendici delle Alpi Apuane (la « marmorea corona - di minaccevoli punte », « cerulea d’ombre, bianca di cave ») e distrussero la casa, e la famigliuola, per salvarsi, dovette in tutta fretta fuggire sul monte, nell'infuriare delle acque. Morto di lì a poco il padre, il bambino fu preso nella casa del nonno materno, che per diciassette anni era rimasto chiuso, « per furie d’amore », in un manicomio della provincia, e per altri sette od otto anni aveva girovagato attraverso la Lucchesia, dando fondo al suo modesto patrimonio; ed infine aveva fatto ritorno in quel di Serravezza e s’era stabilito in una casupola sul Monte di Ripa, di fronte al mare.
Era un uomo terribile, il nonno: collerico, violento, sanguigno. Con lui non si scherzava. Nella casa, il benessere d’una volta se n’era andato. Il fanciullo fu adibito alla sorveglianza delle pecore. Ma non di rado il pastorello, per sottrarsi alle bastonate del vecchio, fuggiva pei monti, e dormiva nei fienili o nelle stalle, e per campare rubacchiava frutta ai contadini, che lo chiamavano « Enrichetto ». Venne un anno peggiore degli altri. Nei prati non c’era un filo d’erba per le pecore, ed il ragazzo doveva arrampicarsi sugli alberi, a raccogliere foglie onde sfamare il gregge. Quella vita di disagi lo fece ammalare. La Misericordia lo raccolse in un fienile e lo trasportò all’ospedale di Serravezza; dove, una volta guarito, siccome c’era da pagare la giacenza, il ragazzo chiese alle monache di rimanere come inserviente. Quelle ac consentirono, lo presero a ben volere, e gli fecero consacrare le mani per adibirlo al delicato officio di preparare gli apparati sacri — il calice, il lino, le bende, l’ostia — che le donne, e nemmeno le suore, non possono toccare. Questo diede a Pea un fumo d’esaltazione religiosa. E fu qui che imparò a distinguere le prime lettere dell’alfabeto, compitando le parole d’una tabella appesa alla parete di una corsìa. Pea ne rammenta ancora il motto: In Dio la tua speranza — Nel medico la tua fiducia — Gratitudine ai fondatori — A chi ti assiste e ti visita corrispondenza di cristiano affetto.
Pea si trovava ancora nell’ospedale di Serravezza quando, una sera, un tocco di campana annunciò che un malato grave stava per arrivare. Se si fosse trattato di un ferito, i tocchi di campana sarebbero stati due; e tre, se si fosse trattato di un morto. Poco dopo trasportavano nella stanza di pronto soccorso un vecchio colpito da apoplessia: Enrico Pea lo riconobbe subito. Era il nonno, che due giorni dopo spirava.
Frattanto s’era maturata, nel giovinetto, la decisione di darsi alla vita religiosa. Per essere istruito e poter quindi entrare in un seminario, si recò a Querceta, vicino a Forte dei Marmi, presso un prete, certo Don Raffaello Galleni, òhe è ancora vivo ed aveva, allora, un suo speciale metodo di insegnare religione. Radunava i ragazzi intorno ad una lunga tavola rettangolare, in cucina, disponendoli per bravura. Vale a dire, lui capotavola; a destra l’allievo migliore, e via via fino a che alla sua sinistra prendeva posto quello che era più bestia. E l’insegnamento procedeva mediante l’uso di una lunga canna, che il buon sacerdote batteva seccamente sulle mani di chi non sapeva rispondere* a tempo e bene. Enrico Pea era più addietro di tutti, chè non aveva fatto nemmeno la prima elementare; e non passava giorno che le « salacche » non arrivassero sulle sue mani. Finalmente, otto o nove mesi dopo, il giovinetto venne ammesso nel convento dei frati vegetariani di Sant’Orpè, a Pisa. Ma il padre priore si accorse che aveva un occhio malato, e in obbedienza al dogma che « il sacerdote non può avere difetti fisici » gli chiuse la porta in faccia.
Scartato dal servizio ecclesiastico, piuttosto deluso, Enrico Pea prese la via del mare, come mozzo sopra un veliero che faceva traffico di marmi nel Tirreno; e su quel barcone dimostrò, si può dire, le sue prime attitudini teatrali ed inventive. Il capitano — un vecchio lupo di mare, cieco da un occhio — dava un tema: per esempio, il naufragio del veliero; e i marinai dovevano svolgerlo in forma di dialogo improvvisato. Pea si cimentò anche nel genere comico, con scene dialogate in cui veniva preso in giro un marinaio di bordo che aveva lasciato a terra la fidanzata; ed ebbe successo.
Sul veliero, però, il giovanetto non rimase a lungo. Sbarcato a Livorno, riuscì ad entrare come allievo meccanico nel cantiere Orlando, e vi rimase due anni. In quel periodo, la sera andava a far da comparsa (trenta centesimi a spettacolo) al Teatro Eden delle Montagne Russe, dove germogliò una sua segreta passioncella per una bellissima attrice, la Boetti-Valvassura. Poi, a sedici anni, tornò ad imbarcarsi, per andare a lavorare nel porto di Alessandria d’Egitto. Laggiù, lo presero a bordo di un bastimento di salvataggio, il Nur-el-Din, che in arabo vuol dire «Luce di Dio». Passò quindi nelle Ferrovie egiziane. Ma un giorno cadde da una locomotiva, ebbe uno sbocco di sangue e dovè abbandonare il posto. Si decise a fare il mercante di marmi del suo paese, e poi mise su un laboratorio di falegnameria. Aveva ormai quasi venti anni, e qualche soldo da parte. Prese in affitto, fuori d’Alessandria, un terreno nudo e vi costruì un baraccone di legno e di ferro, che venne adibito a molteplici usi. Lo chiamavano la « Baracca Rossa ». Pea l’ha descritta nel suo romanzo II servitore del Diavolo. C’era di tutto, là dentro: un deposito di marmi di Serravezza, un magazzino di falso vino di Chianti, e, in custodia al vinaio, un carro funerario di prima classe, tutto dorato, con tre cupole e tre croci smontabili, in modo che, per i funerali dei liberi pensatori, le tre croci venivano sostituite con tre vasi neutri di rito, scolpiti all’usanza greca. E al piano di sopra dell’edificio c’erano delle stanzette ed una specie di grande dormitorio pubblico, che ospitavano la più strana gente: i reietti d’ogni razza, religione e paese; degli irregolari, degli ex-uomini, direbbe Adone Nosari. « La Baracca Rossa era un palo intorno a cui giravano, anche senza averne coscienza, le forze bestiali di una umanità ghiotta di beni afferrabili, o controllabili con gli strumenti ». Era uno strano miscuglio di anarchici italiani e francesi, di nazionalisti armeni, di greci, di nichilisti russi, di ebrei. A volte, di notte, tra quella strana gente che viveva senza coscienza dei vincoli della convivenza onesta avvenivano fattacci; ed allora doveva intervenire la polizia, che teneva sempre gli occhi aperti sulla Baracca Rossa.
Quel miscuglio umano, con le sue credenze, le sue idee, i suoi istinti, le sue passioni, interessava grandemente Enrico Pea, come lo interessava l’inconciliabile mondo intorno, di razze e di religioni diverse. Aveva finalmente imparato a leggere, e si era avidamente gettato sulla Bibbia. La lettura della Bibbia e i contatti con la gente ebraica lo sospingevano istintivamente verso le religioni. Frequentava le sinagoghe, le chiese ortodosse e cattoliche, ed ascoltava, con raccolto fervore, le prediche dei diversi riti. Era pel suo spirito come una reazione all’ambiente anarcoide e materialista in cui doveva vivere, alla Baracca Rossa.
Aveva, frattanto, preso moglie, alla Baracca Rossa. Un giorno, s’ammalò di vaiuolo. Nella convalescenza, un professore amico, che lo assisteva, gli lesse Leopardi, Foscolo, Parini e Manzoni; ed allora Pea cominciò a capire cos’era la poesia, e fu preso dalla voglia d’imparare a scrivere, per scrivere anche lui.
— Ho imparato a scrivere allora: e sai come? In poesia, canticchiando ad alta voce, perchè, non avendo studiato mai la grammatica, mi aiutavo con la musicalità...
Ma per dieci anni Pea non scrisse che per se stesso. Una grave crisi travagliava l’Egitto. Pea pensò di far ritorno in Italia, con quel po’ di denaro che aveva messo insieme, e con la moglie e i figli. Prima d’imbarcarsi volle bruciare tutto quello che aveva scritto fino allora. E non si salvò, dal rogo, che un piccolo libro di frammenti e di liriche, Fole, perchè se l’era già portato in Italia un amico del Pea, il poeta Ungaretti, e lo aveva dato a stampare ad un piccolo editore di Pescara.
Oramai il solco era aperto, e venne la semente. Nel ’12 Enrico Pea pubblicava un volume di poemetti, Montignoso; nel ’14, nei quaderni della « Voce », Lo spaventacchio, e nello stesso anno faceva rappresentare il suo primo dramma, religioso, La Rosa di Sion; nel ’17 dava alle scene un altro dramma religioso, Giuda, che dopo la prima rappresentazione, data dal Ninchi, l’autore ripudiava come opera iniqua ed ateistica. Poi, sono venuti altri due drammi: Prime pioggie, rappresentato la prima volta dalla Compagnia Talli allo Sperimentale di Bologna e premiato dalla Società Italiana degli Autori, ed un mistero religioso, La Passione di Cristo; ed i romanzi Moscardino, Il volto santo e Il servitore del Diavolo. E presto Enrico Pea darà al teatro una favola religiosa in tre atti, L’anello del parente folle, una commedia in due prologhi e due atti dallo strano titolo: Parole di scimmie e di poeti, e pubblicherà un nuovo romanzo di cui non ha trovato ancora il titolo.
Questi sono i capitoli dell’avventurosa vita del forte ed originalissimo scrittore della Versilia.
M. C.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.08.32

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Citazione: M.C., “Enrico Pea e le sue avventure di terra e di mare,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/620.