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Titolo: Un giocoliere

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1932-08-24

Identificatore: 1932_378

Testo: Un giocoliere
La notizia della morte di Flok, celebre artista del teatro di varietà, vittima di un incidente della strada a Boston, mi ha lasciato un gran vuoto nell’anima. Era l’uomo più straordinario ch’io abbia mai conosciuto e mi fu per molto tempo amico, fratello, anzi, e guida spirituale. Ma val la pena che vi racconti come m’incontrai con lui.
Stavo seduto davanti al tavolo di un caffè dove ero entrato in un momento di nera malinconia. Osservavo dentro un grande specchio che occupava un’intera parete la folla degli avventori, senza interesse alcuno, come da una riva si osservano dei nuotatori che arranchino sotto il pelo dell’acqua limpida. Una mano si posò sulla mia spalla. Prima di volgermi sussultai con l’aria di un uomo colpevole.
— Tu? — mi dice una voce. — Sono tanti anni che non ti vedevo.
— Tanti anni... Ma chi sei?
Ride. Riconosco non lui, ma la sua maniera di ridere, unica: bocca aperta, denti serrati, occhi piccoli, con una concentrata fosforescenza. Cerco di dipanare in me un numero lungo di anni, cominciando dall’ultimo filo: questo riso appartiene al punto in cui il filo si perde e la memoria si annebbia del tutto: all’infanzia.
— Il tuo nome?
— Abbiamo vissuto insieme tre anni nelle case operaie di B... Sei smemorato del tutto?
— No. Ora ricordo il cortile grande dove si giuocava insieme. Ma il tuo nome? Tu sei Osv...
— Zitto: quello non è più il mio nome... Ma è veramente difficile, sai, il poterci riconoscere dopo tanti anni. Posso offrirti un caffè, un gin, un cocktail? Cameriere, un cocktail per il mio amico... Ti ritrovo pallido, come allora, con qualche ruga e dei capelli bianchi alle tempie. Io no, guarda. Passo il rasoio due volte al mese sulla mia testa. E’ buffa?... Ah! Ridi finalmente, anche tu. Mi fa piacere vederti ridere, come allora, quando facemmo alleanza, io e te, per difenderci contro gli assalti dei ragazzi del quartiere vicino. Ma che hai?
— Perché hai cambiato nome?
— Me lo domandi con quella faccia? Un nome non ha importanza. Meno che niente per me, che non ho più nessuno.
Ah, ora ricordo! Quel bel tomo era orfano e dimorava con sua zia, una vecchia bisbetica. Il giorno che mori mia madre mi comparve davanti in maniche di camicia, le gambe nude, i ginocchi scorticati dal gran liticare che faceva con tutti, fuorché con me, e ridendo in un modo strano, come poc’anzi, mi aveva detto : — Ora siamo soli tutti e due. — Soli. Sembrava felice che lo fossi dir ventato anch’io.
— Un nome, già, a che serve? Ho girato il mondo tanto da dimenticare quasi la mia terra. Strano ti sembra? Si può, sai? Mi chiamo Flok, ora. Ti piace? Ed ora bevi un cocktail alla mia salute ed io trincherò alla tua.
Lanciò in aria un piccolo piatto di porcellana. Il disco girò più volte sulla sua testa finché lo raccolse con la mano destra dietro l’ascella.
— Op là! Ti piace? Questo è niente. So fare tante altre cose del genere. Ma perché mi guardi con quegli occhi spauriti, come se avessi commesso qualche delitto? Non ho ucciso nessuno. Non ho svaligiato casseforti. Non sono implicato in alcuno scandalo clamoroso. Credi mi sarebbe facile nascondermi con questa mia faccia?
Risi di malavoglia. L’alcool mi dava un po’ di concitazione. La folla seduta davanti ai tavoli cominciava a divenirmi famigliare.
— Ed ora che fai?
— L’« eccentrico ». Non è un aggettivo, come si poteva supporre a scuola, ma una professione vera. Lavoro al teatro di varietà da vari anni. Raschio il violino, canto qualche canzonetta, danzo a mio modo i balli moderni, suono il sassofono e il banjo, cammino intorno al palcoscenico con le mani per terra e le gambe in aria, come sapevo fare fin da ragazzo. In questa posizione sono capace perfino di tenere un discorso al pubblico, s’intende uno di quei discorsi che fanno sbellicare dalle risa. Ti stupisce?
— No...
— Ora forse capirai perché non voglio più che mi si chiami col vecchio nome. Flok è un nome divertente. Mi sembra anzi che dia un’idea assai precisa di quello che sono io. Figurati che firmo i contratti col mio nome d'arte, per quanto i colleghi mi dican sempre che non è legale e che mi troverei a mal partito se dovessi sostenere una lite.
Rise di nuovo. La linea dura della mascella si raddolciva quando rideva.
— Ma tu che fai? — aggiunse con aria inquisitoriale. — Perché non parli? Ah, indovino: sei innamorato: una donna, lontana... Ti ha abbandonato: comunissima storia... E il suo nome? Lucia? Margot? Olga? Cate?... Ho indovinato: si chiama Cate. Farò qualcosa perché tu la dimentichi. — La sua penetrazione mi indispettiva. — Cameriere, un altro cocktail per il mio amico. Come? Non vuoi più bere? Trincherò io di nuovo alla tua salute.
Volle dimostrarmi ancora una volta la sua destrezza, questa volta lanciando in aria due piattini. Gli avventori ridevano.
— So ripetere il giuoco con quattro palle di avorio e conto fra poco di poterlo fare con sei. Il mio primo maestro russo Alex Borodinof dice che occorrono almeno sei anni di esercizio per poterlo compiere alla perfezione dovuta. Io conto di potervi giungere in meno di un anno. Borodinof, scoperta la mia predisposizione a questo genere di lavoro, mi avrebbe voluto come suo partner. Preferisco lavorare solo. La solitudine è il mio forte. Per te invece deve essere pericolosa... Ed ora bevi. Un sorso, un sorso solo: ti farà buono... e non pensare a Cate. Non mi è mai avvenuto di fare un giuoco di destrezza e di vedere uno spettatore rimaner con quella faccia... Scommetto che fra tante idee balzane ti è venuta quella più nera di tutte! Suicidarti alla tua età che schiocchezza!... Ah! Finalmente hai bevuto.
Mi abbracciò. Non posso perdonarmi di aver pensato che la sua tenerezza fosse un effetto dell’ebbrezza alcoolica. Doveva infatti aver bevuto molto durante il giorno. Ma negli occhi piccoli tenuti aperti con uno sforzo di nervi facciali che incavava le rughe sventagliate dalla congiuntiva alla tempia c’era qualcosa che solo molto più tardi avrei riconosciuto come una sincera disposizione alle effusioni fraterne.
* * *
Per strada volle sapere i particolari della mia vita ed io li esposi così come si affollavano alla mia memoria. Cessò di compassionarmi e mi esortò a procedere con ordine. Che cosa sarebbe avvenuto a lui se si fosse messo in testa di lanciare sei palle in aria, tutte insieme, senza seguire il metodo lento, graduale di Borodinof? E perché poi affliggermi tanto? Per una donna? Per dei dissesti economici? Per l’orribile confusione che fanno gli uomini nel mondo? Puah!
— La mia arte ti guarirà — diceva con sussiego. — Se fosse l’ora dello spettacolo potrei improvvisare un numero nuovo in tuo onore. Perché ogni sera mi produco in una maniera diversa. Flok è numero che potrebbe tenere il cartellone un anno intero senza annoiare la gente.
« Come faccio, vuoi sapere? Improvviso. Non ho bisogno di prove, io. L’orchestra annuncia il mio ingresso con una bizzarria musicale qualsiasi. Tace quando entra Flok. Io canto, danzo, mi accompagno con lo strumento, tutto da solo. Imito ventriloquiando molti strumenti; quelli di cui non posso fare a meno li ho ridotti alla minima espressione. Un organo, ad esempio, si imita strusciando le palme delle mani su dieci bicchieri affilati. L’armonica ponendosi delle vesciche sotto le ascelle e il deretano. Il violino con un (budello teso sopra un manico di scopa ricurvo. Sono, come puoi supporre, la disperazione di quei buffissimi professori di orchestra che con me non hanno nulla da fare: ho ridotto tutto comicamente alla massima semplicità... Nella vita forse è un’altra cosa... Ma non mi pongo mai problemi difficili. Voglio essere sempre Flok e nient’altro, io... Ma sì, sì, guarirò anche te, non temere... Ecco: siamo giunti al teatro. E’ l’ora della prova ed io assisto sempre per dare qualche consiglio ai colleghi privi di fantasia... Avanti, entra, non temere... Ma il tuo nome? Ah, smemorato, smemorato che sono. Aspetta, lascia che cerchi... No, no: non trovo. Il tuo nome qual'è? ».
Afferrai le sue mani.
— Vorrei avere come te un nome nuovo, un nome d’arte, che m’illudesse di avere anch’io un’anima da giocoliere. Ma non sono un artista e non ho le tue risorse...
— Un nome nuovo, sì: è d’importanza capitale. Ma quale? Io trovai il mio per caso, senza cercarlo. Flok non voleva dir niente dapprima... Cerchiamone Uno per te... Adamo, Delio... Crok... Arancranak... Ma no, no; nessuno fa al caso tuo... Flik? Ti piace Flik?... Bellissimo: Io Flok, tu Flik. Come due fratelli. In qualcosa ci somigliamo per quanto non sembri a prima vista. Flik, Flok, una meraviglia... Ed ora entra, Flik, fratello mio ritrovato.
La sera estiva era soffocante. Le strade rigurgitavano di folla. Contro la porta d’ingresso del teatro vedevo al di sopra della testa pelata di Flok, su cui giuocavano bizzarramente i riflessi solari, una raggera di lucenti palle d’avorio.
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 24.08.32

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Citazione: Riccardo Marchi, “Un giocoliere,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/634.