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Titolo: Moscacieca

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1933-02-08

Identificatore: 1933_108

Testo: Moscacieca
Una parola udita nell’infanzia; magari, che non ci era destinata; anzi, che si cercò non udissimo; capita s’iscriva nella memoria; netta miracolosamente, col tono e il gesto che l’accompagnò: come se essa sola, fra infinite, ci fosse apparsa in tutte maiuscole.
Cosi per me la frase: « la cassapanca della sposa »; con cui, su un uscio, s’era fatto da parte, perché mia madre si affacciasse, il custode della villa dove s’andava per fiori.
A quell’età le parole si presentano coi più imprevedibili significati; e forse quella mi riuscì inesplicabile; ma soprattutto la sottolineò il ritrarsi di mia madre, e, nella premura che vi mise, la stretta che mi diede senza volerlo la sua mano che mi teneva a bada.
Era una villa settecentesca; dalla facciata d’un rosa un po’ stinto, rilevato dal lustro delle magnolie. Tanto festosa di fuori: con le statue imporrite all’aperto, le vasche verdi, il boschetto di camelie; e — la cosa più allegra — a limite del giardino, con su i vasi di marmo e i cani di terracotta, il gioco degli archi liberi: capriccioso svolazzo di pietra rossa, leggero come una danza campata in aria.
Preso in quel girotondo, il palazzotto taceva, sigillato come un reliquario. S’era chiuso così su' uno sposalizio. Contro l’aspettativa, il dì dopo quelle nozze, al momento di animarsi, il palazzotto aveva calato gli sporti e attirato i battenti: chiudersi discreto e per sempre che avrebbe richiamato il geloso serrarsi del fiore sulle nozze avvenute, se veramente quel silenzio si fosse fatto su una gioia nuziale.
Invece lo sposo n’era tosto partito, solo e per non rimettervi piede. Da un secolo ormai nessuno vi abitava. Gli attuali padroni, quando gli interessi ve li conducevano, al palazzotto preferivano l’albergo in paese. I guasti dell’abbandono si cominciavano a vedere: intorno alle finestre condannate, l’umidità segnava i muri di solchi che parevano di pianto.
Approfittando dell’ora che il custode dava aria al pianterreno, io m’avventuravo in quel labirinto di sale come in una selva. E’ là dentro, in quel tanfo di passato, che la mia infanzia assaggiò i primi deliziosi terrori.
L’alcova era presso la cappella, che aveva i palchetti come un teatro. Una presenza pareva inarcare a montagna il corto letto sotto il baldacchino polveroso.
Nella sala piena d’eco, la tavola imbandita di frutta di maiolica e con tutte le spalliere delle sedie accostate sembrava attendere; ed io non dubitavo che nel cuore della notte il doppiere si accendesse e convitasse a un metafisico banchetto gli antenati delle cornici.
Imboccando un corridoio, al passo che di laggiù si staccava, compagno al mio, m’arrestavo col batticuore: se mai dall’altro capo, che rimaneva al buio, qualcuno si facesse alla mia volta. Entrando in una camera, degli occhi evitavo la luce dello specchio; persuaso che l’impronta di qualche volto potesse essere rimasta a galleggiarvi come in uno stagno.
La cassapanca della sposa era nella stanza d’angolo: una stanza fuori mano, affondata nello spessore delle muraglie, sorda come un ammazzatoio. Ad essa mi spingeva la fantasia; e, sulla soglia, ogni volta, l’apprensione mi faceva i piedi di piombo. Ma solo il giorno che vi penetrai, seppi dove tendeva quel mio vagare a tentoni.
La tanto fantasticata non era naturalmente che una comune cassapanca di quercia scolpita; ma monumentale e più massiccia del solito, se le mie braccia stentarono a sollevarne il coperchio.
La stanza non avendo finestre, avevo lasciato dietro a me l’uscio aperto; e deluso mi spenzolavo sull’interno buio che sentiva la canfora, quando, come una foglia, il coperchio mi volò di mano; e non fece in tempo a ricadere d’un tonfo, che, sollevato di peso, mi trovai fuori di là, alla luce, nelle braccia di mia madre.
Sapendomi in fallo, già aprivo la bocca a strillare; senonché, appena fuori, senza una parola mia madre mi lasciava; e, come di botto le mancassero le gambe, s’afflosciava sul primo sedile, ripiegata su se stessa e col viso fra le mani.
Avvicinandomi, sentii che tremava tutta. Allora, tra rimorso e spavento, singhiozzando e gridando le fui sopra, a stringerla dappresso di carezze, a sforzarla ad alzare il capo.
Ma lungamente essa non si mosse da come stava e solo rispose alle mie premure con una mano con cui m’andava chetando. Ed anche quando levò la faccia — ed io notai con sollievo che non piangeva — continuo a tenere altrove lo sguardo e a fissarlo come assorta in un punto della stanza.
Ciò che vi scorgeva — la visione che l’aveva sconvolta, sorprendendomi col capo nella cassapanca — non potei indovinarlo che più tardi, quando appresi la strana notte di nozze su cui s’era chiusa la villa.
O
Lo sposo — se era questo notaio di pelo rosso e compunto che, incravattato di mussola, strizza i cigli nella tela — al pranzo di nozze è lecito figurarselo un po’ a disagio.
Ad età già avanzata, dalla irruzione d’una cuginetta, fresco uscita di convento, tirato su per la prima volta dalle sue miniature, da quelle finte dietro la viva s’era sviato, fra i crollacapo della famiglia.
Al matrimonio giungeva senza conoscer donna; ed anche questo, quella notte, doveva un poco vedersi. Ma soprattutto lo intimidiva la presenza, che dominava la tavola, del fratello scavezzacollo: faccia prepotente anche dipinta, su cui in quell’occasione si doveva leggere: « Vediamo come Carlino se la cava ».
La sposa era primo Ottocento; guardinfante, sbuffi, fronzoli e falbalà. Al pranzo di nozze pareva un canestro di frutta, tutta grazia com’era, fossette, rossori e candida malizia.
In umore la metteva anche il contrasto col marito; che, in faccia a quella provocazione, durava fatica a contenere l’impazienza nella compostezza.
Già, al madrigale dell’amico di casa, egli s’era avuto pesti i piedi dalle scarpette di lei: sbuffata alla fine, sugli occhi di bue lesso del poeta, nella risata di cui dall’inizio bolliva.
Fu la sposa a ricondurre il cognato, liberando le mani col chiedergli in uno squillo « se le scambiava per canditi »; ed a mettere, con lui, alla porta gli ultimi indiscreti.
Di dietro la porta dove anzi far loro, in punta di piedi, tanto di naso; e certo, in quell’atto, lui tentò di coglierla per la vita, se i ritardatari udirono quella voce, che era destino non si appannasse, sgridarlo: « Calabròn, no toché la rosa! ».
Ciò che seguì, bisogna immaginarselo; perché anche quando, non ottenendo più risposta, lo sposo, sormontato il terrore del ridicolo, si decise a chiamare, poco gli accorsi poterono cavare dal suo spaventato riserbo.
Pare tuttavia che la pazzerella continuasse a trovar gusto a eludere quella impazienza. Forse essa pretese d’avere ancora le sue devozioni da fare: nella sala dal grande baldacchino, la vedo spiare dall’inginocchiatoio il disappunto di lui. Vedo lui rincorrerla, in una specie di moscacieca nuziale, per la casa tetra; e quella sfuggirgli sempre di mano come una nuvoletta. Lo sposo scostava i cortinaggi di una tenda e la risata partiva dietro una porta.
Certo venne il momento che, piccato d’essere ancora a braccia vuote, lui fece il sordo ai cucii e s’imbronciò nella sua stanza.
Come finì, s’è capito. Con quei muri, ogni vano spegneva la voce copie un materasso. E se lui la cercò anche nella stanza d’angolo, forse in quel punto, a sentire sul suo capo lo scatto della serratura, la fanciulla era venuta meno dallo spavento.
Eppure è da credere che, quando, a una voce strozzata, lumi cominciarono ad andare da finestra a finestra, si sarebbe ancora fatto a tempo, se proprio allora lo sposo non si fosse malauguratamente sovvenuto d’una minaccia di lei: sull’istante persuaso che quella l’avesse messa in atto e già pentito d’aver dato la voce.
Così degli accorsi — in pochi per frugare dappertutto — alcuni si sviarono ancora per la scala di servizio: malagevole budello d’oltre mille gradini, dissimulato nel corpo del palazzo, ch’esso attraversava dal colmo alle fondamenta.
Perché la minaccia della pazzerella era stata di andare a dormire con Bianchina; e Bianchina era la tortora che la fanciulla s’era portata di convento e che abitava in cima di casa nell’abbaino sotto il tetto.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.02.33

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Moscacieca,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/918.