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Titolo: Incredibile ma vero

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1931-07-29

Identificatore: 100

Testo: Incredibile ma vero

La mia vita (e suppongo anche la vita degli altri) è piena d’incidenti che guai a considerarli con il solito occhio frettoloso, o con l’occhio della comune sagacia, la quale sta quasi tutta nel supporre il peggio. Perciò mi compiaccio d’essere un uomo oscuro di cui nessuno scriverà mai la biografìa. Un mio biografo, anche non malevolo, si troverebbe nella tentazione di giudicare severamente certi atti della mia vita che nulla contengono di biasimevole e alcuni appartengono al genere della virtù sopraffina. Virtù sopraffina è quella che non s’indovina; né io potrei già mettermi alle spalle del mio biografo e dirgli: « Attenzione, perché qui c’è sotto altro ». E mi crederebbe?

L’affare del professor Girola, per esempio Verso la fine di quell’inverno (facevo il second’anno di liceo) il nostro docente di matematica mori improvvisamente d’un colpo apoplettico piombatogli fra capo e collo una sera, nel più bello della sua solita partita a scopa. Era un vecchiotto tarchiato e violento, capace di andare in bestia se uno di noi sbagliava alla lavagna un segno o scriveva un’a invece d'un b. Scene d’inferno. Si arroventava come un diavolo; afferrava, con quella sua manona da sradicare querce, il malcapitato e gli scaricava addosso un fracasso di tuoni. Ma poi tutto finiva lì. E anche le pagelle più meschine del liceo avevano la loro piccola gemma brillante, ch’era la nota di matematica.

Scomparso quel povero caro orso, per un paio di settimane si tirò innanzi con ripieghi, finché un mattino ecco che il Preside ci mena in classe il nuovo professore, incaricato dell’insegnamento per tutto l’anno scolastico.

A me non piacque, e anche i miei compagni, nessun dubbio, ne ebbero un’impressione poco buona. Tutti guardavano con una curiosità diffidente quella figura mediocre d’uomo nerovestito, né vecchio né giovane, né grasso né magro, né bello né brutto, quella faccia sbarbata, stampata d’una specie di sorriso falso. Ed anche notammo come teneva torto il collo e bassi gli occhi e congiunte le mani all’altezza del petto mentre il Preside parlava.

Partito il Preside, parlò lui, tutto mellifluo; e, volendo sapere a quale punto del programma fossimo arrivati, chiamò uno di noi accanto alla cattedra e se lo tenne lì come un confessore il suo penitente; e ogni tanto gli faceva animo («Dica su, caro figliuolo... coraggio... coraggio»); e gli premeva una mano sulla spalla e lo circuiva di domande e domandine, come se quello scarso rispondere dipendesse non da innocente ignoranza, ma da vergogna di peccatacci commessi.

Contribuiva all’effetto anche un disco di pulita calvizie sul colmo della testa, proprio alla maniera d’una tonsura; cosicché, finita la lezione, tutti ci trovammo d’accordo a dire che quel professore certo l’avevano scovato in qualche oratorio festivo, dove s’insegna ai ragazzi la dottrinetta ed il timor di Dio, non certo il modo di risolvere un’equazione. Come se c’importasse delle equazioni!

Ma no, sapeva; e non era affatto un prete. Aveva moglie; e che moglie! Un pezzo di granatiere da mettere in rispetto chiunque, con sulle spalle una testa da imperatore romano, un profilo, una sguardatura tali che nessuno di noi ebbe l’audacia di ridere come si fa dinanzi agli spettacoli buffi, vedendo per istrada quel dolce pretoccolo appeso al braccio d’un simile personaggio. Ritenevamo bensì, come cosa dimostrata, che la nostra matematica sarebbe corsa via liscia al pari d’un olio, non essendo supponibile che quell’umile suddito della sua imperiale consorte potesse mai diventare il tiranno nostro. E grande fu la nostra meraviglia e ancora più l’indignazione quando, alla fine del trimestre, ci trovammo sulla pagella le più miserabili cifre dell’aritmetica. Alle nostre rimostranze, il sant’uomo rispose con la sua ciera più compunta, incrociando le braccia sul petto e torcendo più che mai il collo: « Se sapessero che dolore è anche per me!... Se immaginassero che pena... ». E sospirava. Ed era lì pronto a mescolare le sue lacrime con le nostre. Ci avesse risposto: «Siete un branco di ciuchi e v’ho trattato secondo il merito », la nostra, ira non avrebbe potuto essere più forte. Poiché il boia più odioso è il boia carezzoso.

Orbene, una sera (una dolce sera d'aprile, morbida, tiepida, che ci si moveva meglio che in un sogno) io mi sentii preso, come qualche volta, da una specie di fanatismo poetico e, invece di recarmi sotto i portici a passeggiare coi compagni, uscii tutto solo dalla città, smanioso di trovarmi in qualche bel luogo deserto, dove potessi dire ad alta e patetica voce qualche verso del mio Petrarca o del mio Leopardi: « Dai bei rami scendea — Dolce nella memoria — Una pioggia di fior... ». Oppure: « Chiara e dolce è la notte e senza vento ». La fortuna mi guidò per un viottolino che mi condusse, attraverso orti e campi, fin in cima ad una piccola altura donde si vedeva, nel tramonto dorato, una gran distesa verde e il luccichio di qualche acqua. Non siepi lassù, ma c’erano alcuni cespugli più che sufficienti a celare la vista dell’estremo orizzonte; ed io già cominciavo: « Sempre dolce mi fu quest’ermo colle — E questa siepe... » quando fui interrotto da uno scricchiolar della ghiaia alle mie spalle: mi volgo e vedo... Vedo o travedo?... Mi stropicciai gli occhi, da uomo coscienzioso che non vuol confondere le illusioni dei propri sensi con la realtà... Ma no: era proprio lui, il mio sant’uomo di professore, a braccetto con una persona dell’altro sesso, la quale non s’assomigliava punto alla sua inconfondibile moglie. Una donzelletta era, minuscola e vispa, tutta occhi, la quale, al mio volgermi repentino, mandò un piccolo strillo da uccelletta spaurita e si strinse al compagno. Questi, invece d’assecondare quel grazioso movimento, si sciolse come un ragazzaccio colto in fallo e lanciò in alto le braccia miserabili, che pareva l’atto d’un uomo che annega.

Io... So bene ora quel che avrei dovuto fare io. Far mostra di non avere riconosciuto e squagliarmi dalla parte opposta. Ma lì per lì vinse in me l’abitudine, dirò così, professionale: mi cavai il cappello e gli feci la più bella scappellata che mai allievo al suo professore. E ritornai verso la città con la furia di chi ha in corpo una notizia troppo grossa e muore della voglia di gridarla alle genti. Ma nessuno trovai che potesse offrirmi orecchio conveniente; e dovetti coricarmi con quella pietra sullo stomaco.

Stomaco buono, però, il mio; cosicché, quando il mattino dopo mi risvegliai, anche quella pietra era digerita. E potei, con un po’ di sforzo, lasciar la parola all’imperativo categorico, che m’impose di stare zitto. Perfino riuscii a tenere in freno gli occhi dinanzi al professore, che non vi scorgesse neppure un briciolo di sorriso: a me è sempre piaciuto di concedermi qualche lusso. Né un solo istante mi passò per la mente che quell’incontro potesse giovare o nuocere alla mia matematica.

Giovò, e come! Senza che io facessi il minimo passo alla volta di quella dura scienza, m’accorsi ch’essa veniva a me tutta carezze timide e delicate; e, quand’ero alla lavagna, egli mi susurrava nell’orecchio le debite risposte; e non dico le lodi, e non dico la nota che mi scrisse nella pagella dell’ultimo trimestre. I compagni assistevano strabiliati a quelle mie fortune; qualcuno mi domandò quant’oro avessi profuso, o se, per caso, non mi fossi raccomandato a colei che aveva braccia da sollevare un povero ignorantello ai più alti gradi della scuola. Io, vergognoso e furente, fui due o tre volte sul punto d’affrontare l’uomo ad una svolta della strada e dirgli: « Non sono un ricattatore, sa! Che importa a me delle servette o delle sartine con cui lei va a spasso? Mi tratti come tratta gli altri... ». Facile comporsi nella mente belle parlate; meno facile tradurle in suoni vivi. Così giungemmo alla fine dell’anno scolastico, ed io mi lasciai promuovere con la nota massima.

A risolvere la fastidiosa combinazione, sarebbe bastato divulgare in tempo l’interessante novella: il disgraziato uomo, cessando di sperare nel mio silenzio, si sarebbe trovato libero di fronte a me. Perseverai tuttavia a tacere: fosse puntiglio di saper tacere, fosse timore di chi sa quali conseguenze, fosse poca importanza che io attribuissi a quell' indebito arricchimento estraneo alla mia volontà. Non calcolo interessato, ad ogni modo; e se nessuno vuol credere, non so che farci. Tacqui da uomo che si sacrifica a tacere.

Senonché la sera dopo gli esami, trovandomi con i compagni a cena secondo l’uso, mi lasciai sfuggire il secreto. E certo qualcuno pensò che quell’acqua in bocca per tanto tempo era stato calcolo malizioso, e che il mio parlare di quella sera voleva dire non leggerezza del momento, effetto della compagnia allegra e del vino buono, ma freddo proposito, come se avessi pensato: « Tanto da queirimbecille io ho ottenuto tutto ciò che mi premeva ed ora lo getto in pasto alla maldicenza pubblica ed alla vendetta domestica ».

E non era vero. Ma chi avrebbe creduto alla mia innocenza? Chi, anche dopo il mio veridico racconto, mi crede sulla parola?

Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 29.07.31

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Citazione: Francesco Chiesa, “Incredibile ma vero,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/100.