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Titolo: Una bugia

Autore: Adriano Grego

Data: 1933-04-12

Identificatore: 1933_200

Testo: Una bugia
Un uomo buono l’ho trovato una volta, molt’anni or sono, e non aveva la criniera dell’apostolo: era calvo invece dalla fronte alla nuca, con pochi capelli grigi stopposi che gli piovevano sulle orecchie; aveva due zigomi arguti rotondetti, due larghi denti che poggiavano sul labbro inferiore anche quando la bocca era chiusa e gli guastavano la pronuncia: tanto che veniva voglia di dargli un urtone perché la smettesse di far le bizze cincischiando le parole. Lo chiamavano signor Muré.
Come pagasse la pensione, non so. Ma certo non lavorava mai e se n’usciva di giorno a prendere il sole sulle panchine dei giardini pubblici e se ne rientrava alla sera con certi suoi passi discreti, come se anche in casa avesse continuato a camminare sull’erba.
Non amava le bestie di nessuna specie: nemmeno i gatti, nemmeno i cardellini. Ma verso di noi, compagni di mensa, aveva una curiosità lenta e sorniona, un chiedere svagato di lontane amicizie, di lontani crucci, di sepolte speranze, che ci lasciava in sospetto. Col bimbo della padrona aveva un contegno insolitamente scabro: niente moine, niente caramelle, niente di quelle affettuose blandizie che per abitudine consideriamo segno d’animo gentile.
* * *
Pure, la bontà di quell’uomo mi si rivelò un giorno acuminata come per solito si suppone che sia la cattiveria. Pensate: era con noi in pensione una donna di mezza età, pallida, mingherlina, con una voce tremula e soffocata, che per un nulla, sentivi, doveva trasformarsi in pianto. E piangeva spesso davvero.
Piangeva ogni volta che veniva a trovarla suo figlio. Prima, per tutta la settimana lo attendeva e guardava l’orologio e bisticciavano le dita di una sua mano con quelle dell’altra. Poi, ogni volta, dopo la visita, piangeva. Diceva la gente di casa che era un manigoldo, quello, che batteva a moneta anche quando la madre aveva appena il giusto per pagare il conto della pensione, che alzava la voce, ogni volta, che alzava persino la mano. Che cosa ha da fare una donnicciola così, mingherlina e paurosa, se non venire a tavola cogli occhi rossi e mostrar le gengive senz’arte quando qualcuno di noi la guarda? Così faceva la poveretta.
Finché una volta l'incontrammo per la scala: pareva rotta in due parti e si fermava sui gradini a singhiozzare, e si toccava le ginocchia, e s’appoggiava col busto alla ringhiera. La portammo in camera che smaniava. Chiamava il figlio per nome, ma non diceva altro. « El mé Mario », gridava in un suo dialetto bislacco, e poi cessava di gridare e mordeva le lenzuola. Il giorno dopo si seppe che il figlio era stato arrestato perché nella ditta in cui aveva impiego, s’era appropriato di non so quanto danaro. Era in prigione e non si poteva nemmeno andare a visitarlo. Non si sarebbe creduto che una donnetta così scarna potesse spremersi tante lacrime per tanti giorni. Ma forse le era accaduto lo stesso caso ventiquattr’anni prima quando aveva spremuto latte, per il bambino, dai seni smilzi.
* * *
Pensate: una sera, era la quinta o la sesta sera di quel martirio, il signor Muré dopo pranzo disse alla donna:
— Guardi questo ritratto.
Poca luce c’era nella saletta da pranzo della pensione e perciò la donna si curvò sul tavolo, sotto la lampada, per vedere la fotografia. Poi, la guardai anche io.
— Vede — disse subito dopo — questo era mio figlio.
Aveva l’aria dell’uomo che riesce con fatica a non piangere: la bocca semiaperta, lo sguardo smarrito. Strano che avesse un figlio, quell’uomo. Noi tutti lo credevamo solitario da lontanissimo tempio e ci sarebbe riuscito difficile immaginarlo fuori d’una mensa pubblica, fra occhi di bambini.
— Non c’è più? — chiese la donna
L’uomo scosse il capo. Soltanto più tardi, dopo una pausa, aggiunse:
— È morto.
Io immaginai facilmente ciò che poteva passare nell’animo della donna. « Il mio figliolo l’hanno arrestato. Vorrei star sempre chiusa nella mia camera ».
Allora, fu come se il signor Muré avesse risposto a quei pensieri:
— Vede, signora... quando uno muore si ha paura di offenderlo, a dire la verità. Si dice sempre che era buono, che era bello, che era dolce, che sorrideva sempre. Anche io di solito lo dico. Ma con lei... vede... con lei... questa sera...
— È molto che non c’è più? — chiese la donna sottovoce.
— Tre anni... Già, proprio tre anni... Era nel mese di luglio... Bisogna sapere, che cosa vuol dire una cassa, gli operai che vengono per casa... lo portano via... e poi l’indomani... e poi l’indomani ancora... e poi la prima domenica, il primo lunedì... si va per la strada, si torna a casa... le ore non passano mai...
— Le voleva bene?
— Io, a lui, tanto. Tanto, tanto. Ma lui, chissà... forse anche lui mi voleva bene, ma non me ne accorgevo. Lo dico a lei perché è lei, signora mia... Sa: a me pareva cattivo. Quando io parlavo, mi dava sempre sulla voce... chissà... forse gli ero antipatico... ma tutto quello che dicevo non gli andava bene. Quando si è sposato io avrei voluto andare a stare a casa con lui, con la moglie, con i bimbi... li avrei accompagnati a scuola, portati ai giardini... Ma lui mi ha risposto di no. Capisce? Non mi ha detto neppure « a casa non c’è posto » oppure un’altra scusa qualunque. Mi ha detto no. No, vuol dire « non ti voglio, non ne voglio sapere di te... ». E poi, tante cose...
Lo vidi che guardava di nascosto la donna e poi continuò cogli occhi semichiusi come se avesse assaporato un gradevole antico ricordo:
— E poi... questioni di danaro. Non mi lasciava pace, sa. Quel poco che avevo, se sapesse, come un creditore me lo chiedeva. Mi guardava con astio. Una volta persino... sicuro... m’ha dato uno spintone, così...
Ancora una pausa, più lunga, e vidi la donna che gli si avvicinava col braccio:
— È morto in uno scontro automobilistico. Io vorrei che fosse vivo e mi picchiasse... sicuro... che mi picchiasse...
* * *
Fu molto tempo dopo, qualche mese dopo, che il signor Muré mi confessò la sua bugia. Disse proprio così « bugia »: una modesta, piccoletta parola che si usa coi bambini cattivi.
— Mi giuri che non lo racconta a nessuno. Me lo giura? No, no, non così, voglio la sua parola d’onore. Bravo, allora glie lo dico. Lei ha mezzo indovinato la verità. Ma che cosa vuole? Mi faceva tanta pena quella povera donna e allora, per consolarla, le ho raccontato quella lunga bugia. Io non ho mai avuto figli. Mai. Soltanto una volta m’è morto in uno scontro automobilistico un nipote. Un ragazzo discolo, sa... Io, quando è morto, ne ho provato un po' di pena... ma un po’ di pena soltanto. E allora, sa come capita, certe volte: si inventa una storia, si racconta piano piano... si ha proprio la sensazione che sia vera... e intanto capivo che la donna si consolava un poco.
Rise.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.04.33

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Citazione: Adriano Grego, “Una bugia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1010.