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Titolo: Erminia

Autore: G. G. Napolitano

Data: 1933-04-19

Identificatore: 1933_208

Testo: Erminia
Una storia a cui Giuseppe Pintó non badò abbastanza era quella di Erminia, la ballerina. Giuseppe Pinto aspettava un treno, nel caffè della stazione di Roma, un grande caffè di stile umbertino. Aveva viaggiato molto; veniva da Tripoli e andava a Milano. Il facchino si scaricò le valigie di dosso, che erano grandi e molto pesanti, per portarle aveva dovuto servirsi della cinghia di cuoio; quando vide che la mancia era buona si fece subito a domandare premurosamente a che ora ripartiva il signore, e con quale treno, e assicurò che si sarebbe trovato lì in tempo. Pinto disse di sì, diceva sempre di si, era un giovanotto pigro, ricciuto, con delle mani molli e bianche. Il caffè si era riaperto da poco. Potevano essere le sei e mezzo, il suo treno non sarebbe partito che alle nove. Trovò il caffè insolitamente affollato, c’era stato un pellegrinaggio cattolico, di bavaresi, ed ora i congressisti aspettavano il treno speciale.
Il facchino l’aveva condotto, col fiuto particolare della sua gente, ad occupare l’ultima tavola libera. Il cameriere ci mise un certo tempo ad arrivare, e, mentre puliva il marmo con lo strofinaccio, ripeteva l’ordinazione. Pinto andava a Milano, chiamato lì da un suo compagno di università, che aveva aperto una clinica nuova, per bambini. Ora guardava tutti quégli stranieri, gente che mangiava, beveva, discorreva, rideva forte come fosse già in Germania: sembravano oltremodo sicuri di loro stessi, sotto la protezione di una mezza dozzina di grandi preti bavaresi.
Erminia arrivò all’improvviso in mezzo al caffè. Pinto non la vide entrare: a un certo punto Erminia nacque in mezzo alla sala, assai bene inquadrata nel gioco di losanghe del pavimento a mosaico, pulito di fresco e ancora odoroso di segatura. Aveva scarpe lucide, senza fibbie, scollate a tacchi altissimi, e gambe muscolose, con polpacci da ginnasta, un po’ bassi, verso le caviglie, veri polpacci da ballerina. Pinto scopri all’improvviso quelle gambe contro il banco grande, monumentale, di noce scura. Erminia era entrata insieme a una folata di vento freddo; col bavero rialzato di una pelliccia a buon mercato, era entrata leggera, scivolosa, come una foglia. Ebbe un movimento, come di difesa e di meraviglia trovandosi all’improvviso in mezzo a tutti quegli stranieri: si strinse ancora di più il bavero intorno al viso e smarritamente cominciò a guardare quella gente che la guardava con occhi inesorabili, occhi freddi e curiosi e sfrontati. Occhi da cui non c’era da aspettarsi né simpatia né comprensione. C’era, nell'espressione di Erminia, qualcosa, di infantile e di deluso; una bambina che trova la sua panchina occupata, al giardino pubblico. Pinto guardava quelle gambe, che avevano dovuto essere bellissime: allora la moda consigliava vesti corte, all’altezza del ginocchio. A un certo punto gli occhi di Erminia si scontrarono coi suoi: occhi italiani, da una parte e dall’altra, non c’era da dubitarne neppure per un istante. Erminia accennò qualche passo verso la tavola, Pinto s'alzò, fece un gesto con la mano, invitante; già Erminia era seduta accanto a lui mormorando: « Scusi ». Cosi nacque quella conversazione, dapprima cerimoniosa, impacciata, e poi di più in più cordiale. Erminia aveva ordinato un espresso: da principio, alla fine si ritrovarono ad aver mangiato le stesse cose: uova, latte, burro, pane abbrustolito, maritozzi. Erminia era ancora giovane, e di buon appetito. Pinto guardava quel viso ricolorarsi a poco a poco, sotto la truccatura teatrale: sotto la crema bianca, cruda, lucida, e il rossetto violento che le macchiava gli zigomi un poco sporgenti. Fumava molto, intaccando le sigarette di un rossetto color sangue di bue, un poco viscido, di cattiva qualità. A poco a poco la bocca di Erminia venne alla luce, come lina campagna ritirandosi l’alluvione. Ma, prima, aveva lasciato le sue tracce sulle tazze, sui cucchiaini e sui bicchieri: infine Erminia la deterse accuratamente con un tovagliolino di carta. Era una bocca grande, carnosa, arida, sempre un poco socchiusa su denti grandi, forti e brillanti. Lei era una ballerina di balletti moderni, una ballerina di gruppo, soltanto; la compagnia si era sciolta, la rivista era andata male, e lei era rimasta lì, a Roma, col conto di due settimane da pagare alla pensione. Pinto accolse queste parole con qualche inquietudine; adesso mi domanderà dei soldi, pensava, e gli seccava molto dire di no; l’addolorava moltissimo far quella parte di bersaglio. Ma Erminia si riprese subito, seguitando a parlare con volubilità. Non si preoccupava per questo: aveva un amico a Milano che le avrebbe mandato dei soldi, un commerciante, forse aveva già spedito il vaglia, poteva anche darsi che lo troverebbe alla pensione Non fu mai ben chiaro perché Erminia fosse piovuta alla stazione, né perché avesse l’abitudine di venirci Del resto, a Pinto non importava nulla saperlo. La vita di Erminia venne fuòri, a pezzi e a bocconi, dalla conversazione. Era stata in collegio, a Saluzzo, poi in una fabbrica di proiettili, durante la guerra. L’ultimo anno, verso l’armistizio, Erminia si ritrovò nelle retrovie; ballava in un teatro della Casa del Soldato. Gli arditi le piacevano molto. Un signore la portò a Vienna, nel diciannove. Poi era stata a Berlino: lì aveva imparato a ballare, oh, una scuola molto importante. Tutto il resto era andato abbastanza bene, sino... sino a sei mesi prima, ecco. Questa vita di Erminia a Pinto non interessò. Erminia aveva due grandi occhi neri con ciglia cucite insieme, incollate dal rimmel, che palpitavano dolcemente. Le mani aveva curate: i polpastrelli rosei e il cavo tenero, indifeso. Si movevano con un gran tintinnio di braccialetti d’argento e un considerevole luccichio di anelli a buon mercato. A un certo punto l’uomo vide che i polpastrelli erano bucati: buchi minutissimi: d’ago. Un quarto d'ora prima della partenza del treno la grande porta a vetri smerigliati del caffè si apri quanto basta per far entrare un uomo molto piccolo, vestito di nero, triste in volto e sbarbato di fresco. Un piccolo impiegato, pareva, un triste, timido impiegato vestito di nero. Del resto Pinto lo potette osservare molto meglio quando egli s’avvicinò alla tavola, e togliendosi assai civilmente un cappello duro e consunto: « Permette? » disse. Aveva sotto il braccio una borsa di cuoio nero.
E poi: « Andiamo, Erminia, vieni via ».
— Le ha dato noia, signore? — l’omino domandò a Pinto.
Era un omino timido, e ora Pinto poteva vedere il suo colletto di celluloide, troppo largo, e la sua cravatta bell’e fatta. Sotto traspariva il bottone di rame.
— Domando scusa — diceva l’uomo a voce bassa, una voce dolce e insopportabile. — Domando scusa, ma si tratta di mia moglie. Mi scappa di casa ogni due o tre giorni, per fermare dei signori e raccontare delle storie inverosimili. Allora, le ha raccontato la storia dell’istitutrice di tedesco, no? No, eh? Come dite? Vi ha detto che è una ballerina? Ah già! Ma mia moglie è sarta, non s’è mai mossa da Roma. Solo è... — E qui l’omino si toccò la fronte con un dito, e poco dopo scomparve a braccetto di Erminia.
Questa storia di Erminia, Giuseppe Pinto la dimenticò appena arrivato a Milano. Ma quattro o cinque anni dopo, quattro o cinque anni, mentre prendeva il bagno, un mattino, all’improvviso Erminia la visionaria gli tornò alla mente. Pensando a Erminia si rivesti, fece colazione, uscì di casa e morì. Morì all’improvviso, abbiosciandosi sotto un albero di un viale, sempre pensando a Erminia. Colpa del cuore debole, disse il collega del pronto soccorso.
G. G. Napolitano.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 19.04.33

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Citazione: G. G. Napolitano, “Erminia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1018.