Raoul Auernheimer, il romanziere di Vienna (dettagli)
Titolo: Raoul Auernheimer, il romanziere di Vienna
Autore: Massimo Caputo
Data: 1931-08-05
Identificatore: 105
Testo:
SCRITTORI STRANIERI
Raoul Auernheimer, il romanziere di Vienna
Lui stesso, Raoul Auernheimer. ha definito Vienna « la più latina delle città tedesche »; e questa, del resto, è una verità che salta agli occhi di chiunque abbia avuto modo di viaggiare un poco di qua e di là dalla linea di confine tra il mondo latino e il tedesco.
Ma dove passa poi quella linea? Se la volete tracciare secondo un criterio linguistico, il compito vi riuscirà abbastanza facile; secondo la etnografia, troverete già difficoltà molto maggiori; e vi si imbroglieranno addirittura le carte quando vorrete delimitare geograficamente la frontiera fra germanesimo e latinità, intesi i due concetti per quel che rappresentano come civiltà, tradizioni, religione e, sopra tutto, mentalità. Si capisce allora come quei prussiani nazionalisti fino all’osso, che hanno in programma anche la lotta senza quartiere contro Roma e il Romanesimo, abbiano da cominciare la lor opera di sterminio già in casa propria, nei paesi meridionali e cattolici della Germania; e si capisce come essi, adoratori dei grandi feticci dèlia letteratura e della filosofia germanica, accomunando nel medesimo dispregio la « frivolità » francese, la « levità » italiana, la « barbarie » slava, neghino agli scrittori austriaci un posticino nel Walhalla delle sacre lettere tedesche.
Dovranno offendersene gli austriaci? Tutt’altro. C’è anzi da rimproverare alla gente di qui di essere troppo propensa a considerare la letteratura indigena come rapporto di una provincia al patrimonio letterario dì una Grande Germania; di non avere l’orgoglio dei suoi autori, che rappresentano ed esprimono la vita e il pensiero caratteristici della Nazione; di non ravvisare e affermare nell'opera loro una letteratura austriaca, sia pure in lingua germanica, ma con fisionomia sua propria.
Come ho detto altre volte, è forse il peggior guaio di questo paese il difetto di una sentita coscienza nazionale, che per colmo di sventura si tenta in più modi di far sparire del tutto. Non è triste e sintomatico che all'Università di Vienna si ignori la esistenza di una nazionalità austriaca, per cui gli studènti debbono dichiararsi tedeschi? Disgraziatamente, il dramma sarà sempre questo: che i veri tedeschi, i luterani, i prussianoni, non cesseranno mai di distinguersi dagli austriaci, e li terranno sempre un gradino più giù. Dal loro punto di vista possono magari avere ragione.
Vienna, la Dio mercè, resterà quella che è, come si è formata per virtù della sua ubicazione, alla confluenza della latinità, del germanesimo e dello slaviSmo. Chi poi, in considerazione anche della immutabile realtà delle cose, ragiona che mondo latino e mondò tedesco possono benissimo insieme sussistere e magari integrarsi, trarrà conforto da Vienna, poiché Vienna è il solo, il vero anello di congiunzione dei due mondi; dove, per dir meglio, i due mondi si sono, per quel che potevano, insieme fusi. E la fusione ha dato qualche buon frutto.
Vienna, dice dunque l’Auernheimer, è la più latina delle città tedesche. Tedesca, aggiungo io, perchè vi si parla il tedesco, perchè c’è pur sempre. un’ombra di pedanteria burocratica, perchè vi si beve più birra che da noi; latina per la sua giocondità e i suoi sùbiti trasporti, per l’intelligenza versatile della sua gente, per quella frivolità e levità di cui sopra e che l’aiutano a vivere. E quando l'Auernheimer afferma la latinità di Vienna, lui nato e vissuto qui, insomma viennese puro sangue e dei più rappresentativi, afferma la sua propria, ci indica gli elementi della sua personalità. Come si dice in tedesco, formula un Bekenntnis per conto della sua città e di se stesso.
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Viva schietta e trasparente, così che par acqua di fonte dopo aver gu stato gli oleosi sciroppi di molti riveriti autori germanici, è la latinità del suo pensiero, che s’inizia, si svolge, si conclude con esemplare chiarezza e con sobria eleganza, senza quelle idee medie, quei belletti, quelle rimpolpature onde si dilettano i cervelli oziosi. Egli sa quel che ha da dire, l’ha ben maturato dentro di sè, sfrondandolo dell’inutile e del superfluo, per cui il racconto fluisce stringato e vivace senza subire soste nè remore. E anche questa è arte latina, della migliore, di quella che non muore; voglio dire l’arte delle lìnee semplici, che colgono e rilevano l’essenza delle cose. Lì per lì, a leggere uno qualunque degli scritti dell’Auernheimer, le sue novelle specialmente. si può credere a una facilità piana e felice di narratore, a una composizione nata senza tormento; ma basterà invece indugiare sopra un solo periodo per osservare l’equilibrio che lo governa, corne la ampiezza del suo respiro risponde al concetto da esprimere, come ogni parola abbia il suo valore e la sua ragione. E’ qui che si notano la faticosa elaborazione, le raffinate esigenze dell’artista, la sua costante e severa vigilanza sulla libera vena dello scrittore. Non ci racconta il Brusson che le frasi più chiare e semplici di Anatole France furono quelle che gli costarono maggior lavoro di ponderazione e di lima?
Critico drammatico reputato; articolista di spunto ingegnoso e vario; autore di teatro, che non ha però saputo sacrificare agli effetti della scena l’aristocratica finezza del suo spirito; studioso appassionato della sua vecchia e gloriosa Vienna, di cui ha rievocato con poesia e acuto senso storico personaggi e vicende: Raoui Auernheimer ha, come vedete, una multiforme e operosa attività.
Ma il vero genere suo, quello cui si è maggiormente dedicato e con maggiore successo, è la novella. La novella, che talvolta assume proporzioni e sviluppi più vasti, in modo da occupare le centocinquanta o le duecento pagine, tanto da fregiarsi della definizione di romanzo: e che però resta novella per la sua ossatura liève, per la leggerezza e la cesellatura dei suoi contorni. Certo, all’Auernheimer non mancherebbero l’ispirazione e la capacità per cimentarsi anche al romanzo di complessa e robusta costruzione, diciamo il grande romanzo; ma glie lo impediscono forse la sua natura irrequieta, il suo spirito indagatore, che è sempre attratto a osservare questo e quel nuovo caso di vita, a descriverlo, rappresentarlo e giudicarlo, onde egli non può soffermarsi a perdere troppo tempo sulle vicende di pochi personaggi, poiché già altri si affacciano tra le quinte della sua minuscola scena e chiedono di venir avanti, di recitare la loro parte e narrare la loro storia, dalla quale lui trae poi la sua sottile e filosofica morale.
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Novelliere di classe, pur essendo inspirato ai grandi modelli francesi dell’Ottocento, reca nelle cose sue un atteggiamento, schiettamente germanico, di esame e di riflessione, che l'arguzia e il brio temperano deliziosamente. Mai egli narra per narrare, cioè per sciogliere più o meno ingegnosamente un nodo di fatti e di avvenimenti: in ogni sua novella vi è sempre l’intento finale di scoprire una verità o un angolo remoto dell’anima umana, d’insinuare nel lettore che, alla fin fine, ben poco a questo mondo c’è da prendere sul serio.
Come tutti gli scettici e gli ironici è un antiretorico e, se volete, un distruttore. Ma un distruttore senza violenze e senza tragedie, uno scettico che fa cadere ad uno ad uno i petali dei bei sogni e delle illusioni non con ghigno sarcastico: piuttosto, direi, col sorriso doloroso e indulgente di chi ha dietro di sè una grande esperienza di vita e vorrebbe metterla a vostro profitto per preservarvi dai disinganni, pur sapendo di non riuscire a niente, perchè ogni mortale deve imparare a sue spese.
Tutto ciò — non vorrei essere frainteso — non è posa o artificio qualsiasi, come succede per molti scrittori che in certe epoche trovano opportuno di applicarsi sul volto sciatto la maschera dello scettico e dell’ironico allo scopo precipuo di smerciare qualche copia di più dei loro libèrcoli, ma è la sua vera natura, la sua sincera visione delle cose di questo mondo. Tanto vera e sincera che la percepite solo sotto la veste smagliante del suo spirito e del suo stile brillante, quasi egli volesse intenzionalmente nascondersi ai superficiali, ai lettori frettolosi che leggono per passare un’ora, e lasciare che soltanto la parte eletta del suo pubblico intenda il significato riposto dell’opera sua.
Scettico e ironico egli è stato sempre, fin nelle sue primissime composizioni; e se quel suo primitivo scetticismo, che era come soffuso di una lieve melanconia, di un’intima sconsolata dolcezza, è poi diventato più agro e mordente, ciò attesta ancora della sua sincerità. L’Auernheimer maturo ha giudicato che il giovine Auernheimer era ancora troppo ottimista.
Raramente accade che un autore abbia trovato subito se stesso, Il Nostro è giusto. di quei pochi, che hanno immediatamente espresso la loro personalità e le hanno tenuto fede. Accennerò a una delle novelle della sua — se non erro — prima raccolta dal titolo significativo: Rose che non raggiungiamo. La novella, Stagnola, narra non una storia d’amore, ma la storia di un amore. E gli amori sono tanti. Il bimbo di sei anni del racconto, Paolo, si è preso d’amore per la bella carta d’argento che avvolge i cioccolatini, e la liscia e la conserva preziosamente. Ma non è argento, piccino — ammonisce l’amico grande, l’autore — è soltanto stagnola. E la stagnola si può, avere in grandi fogli.
Ecco ora i due amici, l'adulto e il piccino, l’esperto e l’innocente, mettersi in cammino per le vie cittadine, già piene del mistero della sera incipiente, verso la lucente stagnola, il grande miraggio: «... e pensavo quante volte io ero andato per simili faccende lungo le vie invase dalla sera. Com’è triste il disinganno che ci aspetta dove il tramonto fiammeggia su chimerici portali! Perchè, per lo più, il cammino fu inutile. E se anche si conquista la stagnola, si vede poi che non valeva la pena di uscire di casa per questo... ».
Infine, giungono al negozio dov’è il tesoro e il commesso dispiega sul banco i fogli della stagnola: « Paolo guardava gli argentei fiammeggianti fogli con òcchi affascinati. Era il punto massimo di quell’amore: la felicità non era ancora pagata, ma era già assicurata... Egli non poteva dir nulla, poteva soltanto guardare, guardare, guardare come la luce della lampada si diffondeva sulla dispiegata stagnola. Noi comperammo tre fogli; io dissi: « Fa cinque fiorini », e posai cinque soldi sul banco. Se Paolo avesse saputo come costava poco la sua felicità, avrebbe forse già subito una delusione. Ma cinque fiorini! Nessun dubbio, questa doveva essere la felicità, se costava così cara! ».
Ritornarono a casa. Nei giorni seguenti, dapprima il piccino rimirò in silenzio la sua bella stagnola, poi cominciò a ritagliarci delle monete fin che abbandonò stanco le forbici (« in quel momento, il sogno di ieri cominciava già ad annoiarlo »). Un ultimo pezzo di stagnola fu riposto accuratamente con un resto di pietà fra le pagine di un libro di favole. Un anno dopo, l’amico adulto trovò Paolo intento a tracciare lettere dell’alfabeto: « Di tempo in tempo egli alzava gli occhi dalla pagina, come fanno i grandi. Egli si sentiva ormai anche un grande. Un anno prima — detto fra noi — era proprio ancora un bambino, ma adesso, adesso era un uomo. Le stupidaggini e i sogni infantili se li era lasciati addietro. Quando s’impara a scrivere, tutto ciò finisce. Ma la sorellina di Paolo, di un anno più giovine, sedeva alla sua tavolina accanto alla finestra e sfogliava un vecchio libro di favole. Ed ecco che trovò la stagnola che vi era stata una volta sepolta. Il pallido oro del tramonto vi cadde sopra con guizzi e barbagli, e tutto ciò riuscì alla piccina affatto nuovo. « Ah! — ella esclamò con occhi scintillanti — « Argento... ». Paolo levò la testa dal suo lavoro. Cosa, argento? Ah, sì... E con la boriosa ironia, che noi abbiamo per i nostri sogni giovanili al tempo del sillabario, egli ebbe un riso tagliente e sprezzante: « Stagnola! ». E tracciò un grande H... Come ho detto, è la storia di un amore, ahimè, di tutti, signora mia ».
C’è sempre, nell' Auernheimer, dell’argento che si riconosce poi per stagnola.
Uomo di mondo, conversatore piacevolissimo e desiderato, egli non è passato invano per tanti salotti. Ha troppo veduto e osservato, ha scoperto quel che si nasconde dietro alle maniere raffinate, alle supposte intellettualità, alle grandi frasi. Ed eccolo a smascherare ipocrisie, a svergognare le vanità, ad abbassare gli orgogli. E qui e la, sempre più rari a mano a mano che egli avanza negli anni e l’opera sua s'accresce, un accento contristato, una nota sommessamente rassegnata dell’uomo che si dispiace di dover riconoscere che il suo prossimo è così come lo vede. Veramente, il mondo potrebbe essere migliore: ma che farci?
I suoi personaggi parlano, agiscono, ridono, piangono, ma accanto a loro c’è lui, Auernheimer, invisibile Mefisto, che vigila e commenta e corregge, mostrandovi il vero valore del le parole, dei gesti, del riso e del pianto; e sempre con la stessa misurata e pur tagliente jronia, con la stessa signorilità, talvolta con umana indulgenza.
Ecco, se Raoul Auernheimer fosse nato a Parigi e scrivesse in francese, la Francia l’avrebbe probabilmente messo sugli altari. Qui, purtroppo, gli altari per i letterati si è dimenticato di costruirli. Ancora c’è da dire che l’Auernheimer, in un ambiente giornalistico ambiguo, porta come critico drammatico un senso di austerità, di integerrima imparzialità, che da queste parti non è frequente. Perchè è un galantuomo. Ma di quelli veri.
Massimo Caputo
Raoul Auernheimer.
Collezione: Diorama 05.08.31
Etichette: Massimo Caputo
Citazione: Massimo Caputo, “Raoul Auernheimer, il romanziere di Vienna,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/105.