Lo storione (dettagli)
Titolo: Lo storione
Autore: Fabio Tombari
Data: 1933-05-31
Identificatore: 1933_261
Testo:
Lo storione
La corrente del Dniester fluiva giù piena e compatta, ora allargandosi lenta nelle vallate, ora a flotti di centinaia di tonnellate che ne facevano saltare il corso fino alla bocca della foce. E tutto ciò da secoli, quasi si fossero sfasciate le doghe dei Carpazi, e tutto il liquido si perdeva inutilmente per quella terra vasta e desolata.
Non un segno di vita al di sopra e ai margini della corrente all'infuori di qualche tronco d’albero rapito dalla fiumana o di qualche branchetto d’anitre galleggianti; ma sott’acqua era un’altra cosa.
Bastava tuffarcisi dentro e subito un mondo più tragico e pesante si rivelava. La luce della notte penetrava sott’acqua come attraverso una vetrata. Più in giù, oltre gli ultimi riflessi del mondo esterno, il buio diveniva sempre più compatto e aderente come una colla, per dar luogo a una nuova luce calma e misteriosa, una luce diffusa che promanava da tutti i corpi sommersi, pari alla luce che illumina il cammino dei morti.
Di fuori pioveva. Una delle sei anitre selvatiche che galleggiavano alla superficie, forse la più giovane, doveva avere un gran sonno. Con la testina girata sulla schiena e il becco sotto un’ala, si lasciava portare dalla corrente per un centinaio di metri, fino alla svolta del fiume, quindi levata la testina di colpo riprendeva a risalire la corrente, a raggiungere il branchetto delle compagne, e via di nuovo a riposare con la testa fra le penne per un altro centinaio di metri. Riuscì a dormire così tutta la notte fino al primo richiamo dello smergo, e avrebbe continuato a dormire sotto la pioggia chissà quanto ancora se non si fosse sentita toccare alla pancia.
Spaventata, con un batter d’ali, si levò dall’acqua gracchiando e guardò. Scorse due cosi neri e puntuti che scendevano il fiume quasi a fior d’acqua.
— Che paura! — gridò l’anitroccolo.
— Paura di che? — gli chiesero.
— Oh, bella! d’esser mangiata!
— Che sciocca! — fecero le compagne e si misero a ridere.
I due intanto che scendevano il Dniester navigavano ora proprio in mezzo al fiume a una velocità appena superiore alla corrente. Erano due giovani storioni, maschio e femmina, nativi del Podhorze, che per la prima volta viaggiavano verso il miraggio del mare salato e popoloso.
Entrare in mare dall’acqua d’un fiume è la cosa più facile di questo mondo, basta lasciarsi condurre dal riflusso, ma è troppo brusco passaggio per un pesce nato nell’acqua dolce.
Nessun astemio o nessun bevitore di latte saprebbe di colpo nuotare in una tinozza di vino senza perdere i sensi.
I due storioncelli preferirono perciò indugiare tutto un giorno a mezz’acqua, là dove il fiume appena fuori dalla terra s’insala a lievi ondate azzurre. Boccheggiavano a piccoli sorsi, starnutendo ogni tanto come due giovani foche, si tuffavano nel fondo limaccioso, ricco di minuscoli pesci, di alghe natanti, di melma, di nidi di spinarello. Finalmente il maschio decise, diede due o tre forti scodate, si lanciò avanti, ed entrambi lasciarono quell’acqua morta per il grande mare aperto.
Una silenziosa luce d’oro irradiava il fondo del Mar Nero. Era una notte di luna piena. Tutto ciò che di più incantevole e pauroso racchiude il piccolo cuore degli esseri ingrandiva verso quei due navigatori con la velocità spaventosa del sogno. Erano immense ombre nere che venivano loro incontro, luci di madrepore fluttuanti, occhi luminosi che s’incrociavano a guisa di riflettori: qualcosa come la vita d’una immensa metropoli dove non mancavano, a grandi fosforescenze, le insegne luminose d’un quartiere di meduse e di fustre.
I due storioncelli non provavano per tutto ciò nessuna meraviglia, nessuno smarrimento. Continuavano a procedere lentamente a fianco a fianco, simili a due pacifici provincialotti in cerca d’un buon pasto e d’una buona camera. Sapevano per atavismo che era pericoloso farsi prendere dalla curiosità e tiravano avanti per il loro destino senza lasciarsi adescare dai molti tranelli che i crudeli abitanti del fondo tendevano da tutte le parti.
Ciò che più li stupiva era il fatto di sentirsi qui il doppio più leggieri che nell’acqua dolce, quanto al resto, pur non avendo nessuna mèta precisa, essi sapevano dove andare e per ogni evenienza si sentivano forti e difesi da cinque robuste file di scudi.
Dormivano di giorno in fondo alla massa marina fra i rami delle molte foreste sparse, vicino a piccoli pesci gialli e luminosi simili a canarini; si nutrivano di alghe, di funghi, e risalivano verso sera evitando tutto ciò che fosse più grosso o più brutto diloro. Fecero così conoscenza di molti altri forestieri nuovi del posto: di diversi sterleti del Danubio, d’un luccio del Dnieper, d’un vecchio salmone nativo del Baltico e capitato lì in quel mare come in una trappola a cul-di-sacco.
Certe volte i due si separavano per avviarsi ciascuno coi propri amici verso i ritrovi preferiti della notte: la femmina verso i coralli luminosi, le serpule, le stelle marine; il maschio nei bassifondi dei polipi e delle attinie molli e gustose come funghi dell’abisso.
Ogni giorno più i due giovani pesci s’avvedevano di quanto differente fosse il mare dall’acqua mite e silenziosa dei fiumi. Improvvise depressioni di temperatura agitavano il fondo di quella massa a grandi correnti a cui era pericoloso abbandonarsi. Impararono cosi a navigare sempre contro corrente, a pinne aperte, avvantaggiandosi in velocità come fanno in volo gli uccelli.
Sempre tenendosi vicino alle coste dove è più facile trovare la pastura, navigarono per alcune notti di seguito fino al Bosforo, al mar di Marinara, per entrare in un mare più limpido e temperato del primo, ma anche molto più salato e tutto stretto di montagne sommerse. Erano già intorno alle isole Egee nel grande Mediterraneo.
Conobbero quaggiù altre razze di abitatori ancor più curiose: le scorpene, gli ottopi, le testuggini, le spugne. Ogni tanto enormi masse scure, sfrangiate di alghe, scivolavano rombando sulla sommità del mare, seguite da pesci piloti e da qualche enorme pescecane. Spesse volte, durante il giorno, i due storioncelli risalivano alla superficie del loro mondo stupiti di trovare in alto, all’esterno, un altro mare molto più leggiero e niente affatto salato, ma irrespirabile, nel quale piccole altre creature dalle grandi pinne aperte volavano abbassandosi ogni tanto per rubare all’acqua molti minuscoli pesci d’argento che pullulavano alla sommità.
Per la prima volta il mondo esterno appariva loro con le sue enormi rocce e le navi, e così luminoso da far male agli occhi.
Una mattina fecero conoscenza di un vecchio pesce spada che soleva seguire le navi per sentir parlare i marinai. Fra le tante navi che incrociavano alla sommità preferiva quelle in cui si parlava il greco o il veneto, evitando tutte le imbarcazioni in cui si conversasse o si cantasse in turco. Fu il pesce spada che li salvò da una tonnara, dov’erano incappati, smagliando col becco la rete che li accerchiava. Poi un giorno anche questo nuovo compagno li abbandonò. Aveva incontrato una nave a vela che da Brindisi faceva la rotta d’oriente. A bordo dovevano essere un po’ tutti veneziani, e il pesce spada seguì la nave dietro il suono di quello strano dialetto del suo mare.
Ma doveva venire un giorno in cui i due storioni si sarebbero dovuti dividere. Fu al largo di Ragusa: una grande aquila marina si avventò sui due riuscendo ad artigliare la femmina. La lotta fu breve e violenta, infine la storiona s’inabissò trascinandosi dietro l’aquila che le si era impigliata alle carni, e un’onda scura li avvolse.
Quando il maschio riuscì a raggiungere il fondo trovò la sua femmina boccheggiante, avvolta dalle grandi ali del drago e d’intorno una miriade rossiccia di triglie, di scorpene, di pesci palombo e di maie che attendevano quella morte per divorarne i cadaveri. Poi alcune seppie, impaurite dalla presenza del grosso pesce, gli scagliarono addosso il loro inchiostro, e lo storione fuggì da quel buie con un po’ di freddo nel cuore.
Navigò per tre giorni. Una grande tempesta, la prima bora dell’inverno, rivoltava il mare uccidendo a migliaia i piccoli pesci della superficie e mettendo in fregola le anguille che già popolavano il fondale strisciando a grandi matasse verso il sud.
Il nostro storione sempre più sfinito da quella fuga, costretto dalla burrasca a tenersi al largo, cominciò a torcersi, a vomitare. Era il mal di mare, quello che i marinai chiamano lo spurgo dei pesci di acqua dolce. Tre grossi delfini in viaggio d’istruzione per l’alto Adriatico dietro nuvole di sardelle, e che già per antipasto avevano decapitato un centinaio di seppie per ciascuno, tornarono alla superficie ridendo come matti. Poi anche la bora calmò. Fuori era cominciato a piovere. Oh, con quanta gratitudine lo storione salutò quell’acqua dolce! Sempre seguendo il suo istinto che lo portava ad avvicinarsi alle coste e alle foci più temperate dei fiumi, errò per tutta una notte di pioggia fino al delta del Po.
Non era ancora il tempo di rimontare le correnti. Gli storioni non risalgono i fiumi che in primavera, accoppiati, per deporre e fecondare le uova. Avrebbe dovuto aspettare ancora, cercarsi una compagna.
Tentò nuovamente il largo, tornò a inabissarsi. Una grande galea, colata a picco da Vittor Pisani nel 1381 al blocco di Chioggia e trasportata dalle correnti a sessanta chilometri verso sud, emergeva dal fango, vellutata di erbe e di funghi. Era gremita di granchi, di telline, di ostriche. Lo storione, nuovamente in forze, affamato, s’aggirava nel fondo ficcando il naso aguzzo fra le connessure. Improvvisamente una forte scossa elettrica l’investì paralizzandogli il muso. Aveva toccato un pesce torpedine.
Divenne cieco, ammattì.
Una rana pescatrice, delle sogliole, un branchetto di ombrine, un merluzzo lo videro fuggire a grandi scodate.
Verso la costa, diverse folaghe lo seguirono fino alla bocca del Bastimento, dentro il Po della Gnocca. Alcuni marinai di Gorino, che pescavano i cefali a Zerberà, lo catturarono per caso davanti a Bonej.
Quando tirarono i tramagli restarono stupiti di trovare in fondo al sacco uno storione di quella portata. Un ragazzo di corsa andò ad avvertire il signor Marco Sponti.
Pioveva forte quella mattina.
Grande, rosso e felice, la casacca di daino, gli stivali da palude, il signor Marco Sponti, concessionario per la pesca e caccia su tutta l’isola della Donzella, ricco di debiti protestati e padrone di tre onde in mare, passeggiava su e giù nella sala a pianterreno del casone di valle, felicitandosi della buona notizia.
— Corri subito dalla Contessa — aveva detto al ragazzo — e consegnale questo biglietto.
La contessa di Castagneto, vedova già da tre anni del contrammiraglio Gandini, ma ancora piacente e abbastanza ricca, gli aveva promesso di venire a pranzo da lui una sera in cui avrebbe potuto offrirle lo storione.
Su e giù per la sala bassa del casone di valle il signor Marco Sponti guardava felice per la finestra aperta la pioggia che cadeva a rovesci, e ogni tanto, davanti al fuoco, estraeva il fazzoletto dal taschino del panciotto per aspirare ad occhi chiusi il suo profumo preferito: Un soir viendra.
Fabio lombari.
Collezione: Diorama 31.05.33
Etichette: Fabio Tombari
Citazione: Fabio Tombari, “Lo storione,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 03 dicembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1071.