Sposalizio a Laurento (dettagli)
Titolo: Sposalizio a Laurento
Autore: Pietro Solari
Data: 1933-07-26
Identificatore: 1933_332
Testo:
Sposalizio
a Laurento
Oltre dodici tempii di marmo, c’era a Laurento solo una casa murata: la casa del re. Il resto era una ressa di baracche e catapecchie di tavole e tronchi d’albero, sordide e lercie, ammassate in doppia fila ai lati dell’unica straducola tortuosa, il Corso, lunga quanto la città. A ridosso del monte le catapecchie cedevano alle caverne. Qui il popolo viveva in promiscuità bestiale con capre pecore e buoi, tuttavia meno bestialmente di quanto si possa pensare. I trogloditi, levandosi ritti all’uscir di caverna, volgevano uno sguardo pieno di invidia alle superbe colonne della casa del re e alla finestra dalla quale Latino, soffiando in un corno da caccia, chiamava il popolo a parlamento; ma la felicità visitava più volentieri le caverne che il Palazzo.
Povero re Latino! Carico d’oro, ma anche d’anni; padrone di tutto e di tutti, non di sè stesso; insonne quando tutta Laurento dormiva, accigliato nei festini, sobrio fra gli ubriachi, gli accadeva spesso, passando davanti a una caverna, di fermarsi a considerare la semplicità e schiettezza dei suoi amministrati e come ogni atto della loro vita fosse naturale e sereno. Qui un moccioso interamente nudo provava la forza dei primi denti ad un torso di cavolo che difendeva dagli assalti di un agnellino poco più grande di lui; là un pecoraio apriva e rovesciava sulla rozza tavola un sacco e ne uscivano forme di cacio e mele, e tutta la famiglia, una donna, sei o sette ragazzi, una vecchia schiava, gli erano intorno a far festa; altre vòlte era uno sorpreso ad alzare i panni a una, o una famiglia a mangiar farro o polenta, con più gusto che se fossero stati fagiani o starne; o una pecora che figliava, assistita umanamente da dieci persone, o un uomo che russando intronava la caverna, con tutti i figli intorno a far buriana. Latino sospirando si ritirava.
Il Palazzo, al ritorno da quelle spedizioni, gli pareva una prigione. In un canto della cucina, con la rocca o il fuso, Amata filava: vecchia dispettosa e acerba non aveva ormai che un pensiero, maritare onorevolmente la figlia e a questo proposito da anni aveva col marito questioni interminabili, che cioè terminavano la vecchia sbattendo l’uscio, Lavinia mettendosi a piangere. Latino allora usciva di nuovo, col diavolo in corpo.
Era questa Lavinia la giovane più avvenente della città e del regno; e per esser erede dello stato la sua mano era ambita da molti e in primo luogo da Turno, re dei Rutuli, giovane che per prestanza virtù e ferocia superava ogni altro contendente. E non si sarebbe vista una coppia meglio appaiata se contro il parentado non avessero brigato gli àuguri e gli aruspici, ai quali l’avvenire sotto un principe bellicoso e alieno dalle cose della religione non pareva promettere niente di buono. Ed essendo Latino tutto chiesa, come avviene di molti vecchi, non era stato difficile spaventarlo con certe predizioni sinistre: come i fati, con terribili auguri, vietassero. le nozze di Lavinia con un italiano, per serbarla ad un principe che verrebbe di là dal mare. Con Amata e con Turno erano tutte le vecchie e le giovani della città, con Latino i preti: sorda, velenosa, perenne, ma indecisa durava la lotta. E, passando gli anni, Lavinia s’era ridotta così vicina a sfiorire che, tardando il marito due o tre anni ancora, l’avrebbe trovata mézza e passita come un frutto dimenticato sul ramo.
Ora una mattina i giovani della Guardia Reale, mentre facevano alle forze sugli spalti, videro luccicare in lontananza, dalla parte del Tevere, rami ed argenti, come di gente armata che venisse alla volta del paese. Corse uno a Palazzo, un altro a far chiudere le porte, un terzo a dare l’allarme e suonare il raduno. La città era già tutta a soqquadro quando si vide che la truppa non erano nemici ma uomini inermi e pacifici, che venivano innanzi agitando rami d’olivo e frasche di quercia.
Era un’ambasceria di cento oratori di Enea, con doni ricchissimi per il re, i primi ufficiali del campo troiano, le prime dignità della corte: troppi a ogni modo per entrar tutti insieme nella sala da pranzo di Latino, dov’era il trono. Ne entrarono quanti ce ne potevano entrare, dodici o quindici in tutto, mentre il grosso rimaneva per le sale e le scale e dinanzi al Palazzo, attorniato dalla turba dei villani armati di forche.
Ilioneo, che era l’Ambasciatore, disse:
— Sacra Corona, noi siamo troiani profughi e raminghi dalla patria perduta e il nostro re, signore nobilissimo, ha nome Enea, al quale è comandato dai fati che torni a questa Italia, nostra antichissima patria, e chieda a quel re che la comanda tanta terra che ci possiamo vivere d’amore e d’accordo tutti quanti come fratelli; e in segno di pace ti manda questi doni, da noi salvati a fatica da trentasei naufragi.
Il Sommo Pontefice, che sedeva a destra del re, si lisciava la barba, abbastanza fluente e folta da nascondere un sorrisetto di maligna soddisfazione. Amata, a sinistra del marito, si mordeva le labbra. Lavinia guardava con insistenza un mattone del pavimento.
— A me — rispose Latino — i fati comandano d’accogliere un principe straniero. E siccome i miei arùspici, nonostante le mie insistenze, non me ne vollero mai rivelare il nome, può darsi benissimo che si tratti del vostro.
S’impuntò un momento come se non ricordasse il nome del re. Già nelle presentazioni il nome è quello che non si capisce mai bene. Ilioneo stava per venirgli in aiuto, ma il vecchio continuò:
— Può darsi benissimo, dico, che si tratti del vostro re Enea. Ditegli dunque che non solo gli darò la terra, ma anche mia figlia in isposa. A meno che — aggiunse aggrottando le ciglia, assalito da un dubbio fondamentale — a meno che naturalmente il vostro re non abbia già moglie...
— No no, è vedovo — s’affrettò a dire Ilioneo.
— Benone. Ditegli allora che venga e che lo aspetto più come padre che come ospite.
Ciò detto s’abbracciarono e Latino condusse l’ospite a vedere la casa e il giardino. Amata, come se l’umiliazione non bastasse, dovè sfacchinare tutta la mattina appresso alle serve, per il pranzo. E sfacchinando schizzava veleno.
— Scostumati, morti di fame, vagabondi! Per fare un’ambasciata, manda su cento scrocconi. Poveri pollastri miei, poveri abbacchi: povero il mio vino, il mio cacio, il mio pane: meglio valeva buttarlo ai cani. Cento bocche, cento forni. Non basteranno tre vitelle. Avete tirato il collo ai polli? Così potessi tirare il collo a lui e ai suoi mangiaufo. Veleno, veleno!
Un insulto di bile anche più amaro l'assalì alla vista dei doni ricevuti e di quelli che Latino andava raccogliendo per farne presente al Trojano.
— Uno straccio di porpora, tre cocci di vasi, una spada arrugginita, un piatto e una collana d’oro balordo, ci vuole la sua faccia a mandare di questa roba a pari nostri. Specchietti per le allodole, trappole per i sorci. Mi verrebbe voglia di fare come all’osteria e presentargli il conto di quel che si mangiano qui stamattina i suoi cento strippati ghiottoni. E guardate quel buonuomo di mio marito che cosa gli manda: cento cavalli da sella maremmani, dodici schiave greche, tre botti di vino dei Castelli. Via via, che è roba rubata!
A guastare la festa, sul meglio del pranzo, capitò Turno, con una guardia di suoi altezzosi baroni. Se non fosse stata la riverenza dovuta alla barba bianca del re subito correva più sangue che vino. Gli ufficiali troiani e i nuovi venuti si guardarono un pezzo in cagnesco, per far vedere bene che non avevano paura. Poi d’improvviso Turno col viso più scurò di un temporale rimontò a cavallo, spronò a sangue e scomparve insieme coi suoi, in un nembo di polvere. Subito dopo montarono a cavallo anche i trojani e partirono. Latino rimase in mezzo alla corte, attonito e disorientato: pesava su tutti l’oppressione di funesti presagi: ma l’arùspice, che aveva bevuto troppo, aveva una visione sfocata e ipermetropica dell’avvenire e si scusava col dire che vedeva lontano, troppo lontano, per essere d’aiuto e di consiglio.
— Vedo — diceva — l'idropostale Roma-Palermo, che oggi è in ritardo d’un quarto d’ora.
Lavinia piangeva in un canto, senza sapere bene perché. I giovani tornarono sugli spalti a esercitarsi alle armi, per la guerra imminente.
Pietro Solari.
Collezione: Diorama 26.07.33
Etichette: Pietro Solari
Citazione: Pietro Solari, “Sposalizio a Laurento,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1142.