Govoni in confidenza (dettagli)
Titolo: Govoni in confidenza
Autore: Giuseppe Villaroel
Data: 1933-08-16
Identificatore: 1933_364
Testo:
VISITE E INCONTRI
Govoni in confidenza
Nei primi anni in cui la fama di Corrado Govoni cominciava ad uscire dalle silenziose mura della città di Ferrara ove il poeta abitava, al ponte della Gradella, circolavano voci fantasiose sulla personalità e sulla vita dello scrittore. A noi giovanissimi, allora, — ma non molto più di Govoni — confinati, oltre lo stretto, nella terra di Polifemo, erano giunte notizie strane di un Govoni pollicultore. Lo immaginavamo, rozzo e pillaccheroso, passare i giorni fra le stie e le covate e ci stupivamo dell’arte sua torbida e ricca di folgorazioni e di cromatismi singolari. Passava, però, nella sua poesia un sottile respiro di tristezza e le girandole delle sue immagini accese e mobilissime lasciavano i segni di una personalità lirica di grande ricalco e di ampio gesto. Ma per noi Govoni era una specie di mago misterioso del canto che portava nell’arte le scorie, e la forza di una natura primitiva e impetuosa.
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Conoscere perciò Govoni uomo fu per noi una grande sorpresa. Alto, squadrato sul sodo, vestito con garbo, gli occhi tra il grigio e il castagno, il volto, di buon colore, propenso al sorriso, la voce calda e. affettuosa, ci parve un simpatico gentiluomo che portasse dal paese nativo le tracce di un benessere e di una signorilità non del tutto stinti. Non il trasandato pollicultore della leggenda; ma nemmeno il poeta, quel poeta che, per chi giunge dai piccoli centri, dovrebbe avere nella singolarità dei lineamenti e dei modi e del vestire, quasi i segni della genialità e dell’arte. E, in verità, Govoni uomo si accomuna con la folla in una città come Roma dove lo trovammo la prima volta e dove lo rivedemmo altre volte senza riconoscerlo, tanto il taglio della sua persona è di quelli che non si staccano dal numero delle note medie e correnti. Forse per ciò ci piacque, forse per ciò non provammo dinanzi a lui quell’imbarazzo che si avverte inevitabilmente quando un letterato accosta un letterato e l’animo dell’uno è teso nello scandaglio delle sensazioni e degli atteggiamenti dell’altro. Govoni dà un senso di riposo allo spirito e lega subito in confidenza. Conoscerci, restare insieme, accompagnarci fu una cosa naturalissima. Egli entrò in una salumeria, comprò non so che cibaria e, con l’involto in mano, sorridente e quieto come un buon padre di famiglia, si diresse a casa per la cena.
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Ma il vero Govoni è un altro. Il vero Govoni l’abbiamo scoperto solo quando egli, a poco a poco, si è confessato.
— Sono uscito da una famiglia di facoltosi agricoltori, la prima del mio paese. Sono nato a Tamara, un borgo di duemila anime, in una casa davanti alla quale sorgeva il para-carro del chilometro che portava il numero tredici (da Ferrara): fatidico segno della mia disdetta!
Il poeta è scontento della sua sorte. Egli pensa, in genere, che i poeti nascano sotto la maledizione. È un concetto baudelairiano. E, in fondo, non ha tutti i torti: La sua vita è stata travagliatissima. Egli ha visto sparire le sue ricchezze e l’arte non gli ha dato quella giusta ricompensa morale che meritava. Ma, forse, egli chiede alla Poesia più di quanto non sia lecito. La fortuna — tranne alcuni casi eccezionali in cui entrano in giuoco fattori estranei all’arte — concede di rado i suoi favori ai poeti. Questa è vecchia storia.
— Se avessi seguito la mia vera vocazione, — dice Govoni — quella di dedicarmi all’agricoltura, oggi non sarei un poeta poverissimo e sacrificatissimo, ma un grosso proprietario di ville e di tenute e puzzerei deliziosamente di benzina lontano un miglio. Allorché misi alla prova, nella mia giovinezza, le mie doti naturali di agricoltore, il risultato fu tale che, in soli quattro anni di lavoro, trasformai una cinquantina di ettari di terreno di media fertilità in una specie di terra promessa! Ma il maledetto germe della poesia che mi era spuntato nel sangue sano e contadino, avvelenandomelo e corrompendolo inguaribilmente, nel periodo della tristissima claustrazione in un collegio di salesiani (dove ero chiamato da tutti « il romanziere » per i miei componimenti ricchi di colorito e di fantasia), doveva far sentire i suoi disastrosi effetti proprio nel momento in cui mi mettevo sulla strada della fortuna e del successo. Il destino aveva voluto che la mia esperienza di agricoltore si svolgesse nell’epoca agitatissima che, per l’Emilia, va dal 1903 al 1910. Domare la terra ribelle, lottare, contro la natura e vincerla, sì; ma la lotta con gli uomini, sempre vile e falsa, mi disgustava. Così affittai le mie terre e poi le vendetti. Un errore che non ho ancora finito di scontare: la mia rovina. Ma anche sulla portata pratica della mia attività letteraria dovetti col tempo accorgermi di essermi ingannato. La mia poesia è troppo originale e troppo dura per potermi illudere di trovare un largo consenso.
Dopo questo sfogo il poeta rientra nella sua consueta indolenza e tranquillamente ci confessa le sue abitudini.
— Lavoro al mattino; quando c’è l’ispirazione e lo stato di grazia. Le ore del mattino hanno per me veramente l’Oro in bocca. Mi costa uno sforzo tremendo della volontà il lavoro compiuto fuori del mio ambiente raccolto, lontano dai miei prediletti libri. Le bellezze del paesaggio e di tutta la vita sono per me una distrazione irresistibile. Al mare, ai monti, in campagna, mi abbandono alla contemplazione. La mia poesia nasce (come la poesia di tutti i poeti) dalle mie sofferenze, dalle mie ansie, dalle mie agitazioni.
Mentre il poeta parla cogliamo a volo, nell’altra stanza, la famiglia. È ancora giovane, e bella la moglie di Govoni: una signora bruna e ricca di molta grazia: sembra l’incarnazione della primavera. Ma sfugge subito al nostro sguardo seguita dai tre figliuoli bellissimi (bruno, castagno, biondo) che hanno occhi pacati e luminosi.
— Ci hai l’istituto di bellezza in casa! — osserviamo.
Il poeta ride; ma poichè tocchiamo subito un tasto falso: lo sport, lo vediamo di nuovo in pressione:
— Disprezzo lo sport così com’è praticato oggi in tutto il mondo; è diventato una professione e come professione è bestiale; è la più grande impronta della banalità del secolo.
Polemizziamo un po’ su questo argomento; ma ci mettiamo presto d’accordo, tanto più che la conversazione si è messa su un piano dove è facile l'incontro: le donne.
— Credo che le donne moderne siano le più belle e affascinanti di tutte le età. Credo, da poeta, che l’amore sia l’unica ragione dell’esistenza, dell’universo e della sua eternità!
Qui si apre un piccolo battibecco subito composto perchè il nòcciolo della quistione è adesso l’amicizia. Ecco un uomo — beato lui — che crede all’amicizia.
— Mi attacco all’amicizia, — dice — questo grande purissimo amore che non conosce le lettere ingiallite e i disperati addii, con un sentimento di fedeltà che solo la morte potrà rompere!
Questa confessione ci conforta. Almeno, noi scettici, sull’amicizia di Govoni possiamo finalmente contare.
Giuseppe Villaroel.
Corrado Govoni
Collezione: Diorama 16.08.33
Etichette: Giuseppe Villaroel, visite e incontri
Citazione: Giuseppe Villaroel, “Govoni in confidenza,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1174.