Vacanze (dettagli)
Titolo: Vacanze
Autore: Francesco Chiesa
Data: 1933-08-23
Identificatore: 1933_369
Testo:
Vacanze
Moglie e figli sono andati al mare; l’Antonia ha ottenuto i suoi quindici giorni di vacanza; e la mia casa, con le sue imposte serrate, sembra anch’essa una creatura in vacanza, una di quelle buone creaturone da fatica che finiscono anch’esse, un certo momento, a lasciarsi chiudere gli occhi dal sonno.
Io amo (benché qualche volta mi prema un poco il cuore) quest’intontimento della casa che più non s’accorge di me se entro, se esco, questa strana voce assente (voce, direi, di uno che parla in sogno) con cui il vano delle scale, il corridoio, le camere rispondono ai miei passi, a una sedia che rovescio inoltrandomi nel buio. Ho veduto stamattina una lista di sole che penetrava nel salotto per lo spiraglio d’un’imposta e veniva a rasentare il tappeto arrotolato. È ridicolo, e non gioverebbe alla mia fama se raccontassi il turbamento provato vedendo quella banalissima cosa: una specie di sacro orrore, un senso dì straziante melanconia, tanto che lasciai lì tutto e uscii.
Avrei potuto recarmi al mare con i miei, e non ho voluto. Ho lasciato che i miei partissero, niente convinti delle mie ragioni: le quali erano senza dubbio deboli e malcucite, benché non nascondessero propositi rei. Nascondevano un di quei garbugli che talvolta si formano nel mio spirito, e, a volerne districare tutti i fili, neppur io ci riesco. Credo che, tra i motivi del mio rifiuto, ci sia quella specie di no puerile che, se non sto attento, mi scatta nell’animo appena qualcuno dice sì... — Sì, quest’anno si va al mare... — No, quest’anno, per conto mio, non si va al mare... Subito riconosco la stupidità del mio no: ma com’è possibile rinnegarlo quando si ha paura di sembrare incoerenti? Piuttosto si cercano i pretesti, le giustificazioni. S’inventano i lavori urgenti, improrogabili: il collega malato da sostituire, la frana in montagna da arrestare... E ai poveri cari, partiti malcontenti e malconvinti, si scrive ogni giorno una lettera piena di quella buona tenerezza che non è possibile senza un po’ di rimorso. Si scrive che tutto va benissimo, che la Lena viene puntualmente a farmi la camera e che alla Pergola si mangiano cibi semplici e sani.
Ciò che è la pura verità. Ma non sanno i miei (e certe cose non si scrivono) quale strano sapore mi viene da questo cenare all’aperto, sotto il verde dei pampini pomposi, nell’osteria delle mie feste giovanili. Ieri sera, mi trovai seduto a un certo tavolino di pietra in fondo in fondo, che aveva l’aria di volermi dire qualche cosa. Altro che! Voleva dirmi che trent’anni fa, una sera d’estate come questa, stavo seduto lì, proprio lì, in compagnia d’una dolce amichetta...
« Non mangia stasera? — mi sentii chiedere, non so quanto tempo dopo, dalla Sora Gigia, la padronona della Pergola. — Non ha appetito? O desidera qualche altra cosa? ». Difatti il prosciutto era ancora lì tutto quanto; e pieno raso il boccalino del bianco secco. Rassicurai la Sora Gigia e m’affrettai a trangugiare tutto un bicchiere di quel benefico vinetto che va dritto all’anima, tant’è fluido e penetrante. Ottimo il bianco secco della Pergola. La mia dolce biondina preferiva l’Asti spumante, che pure ha i suoi pregi e le sue virtù: la virtù, quella sera, di assomigliarle come un fratello: biondi egualmente lui e lei, scintillanti egualmente a un raggio di sole ch’entrava fra i pampini. È in tutt’e due un ugual genere di dolcezza e di bontà: quella dolcezza che si avviva d’un leggero frizzante; quella bontà che si concede intiera nel primo sapore... Quest’altro vino, pensavo, è contenuto e serio, e conviene meglio alla mia età ed alla mia solitudine. Non fa pensare ad un volto ridente; non si confida col primo venuto. Non è vino da brindisi, da tavolate rumorose... Quei quattro laggiù, ad esempio, presso il cespuglio d’oleandro, lo sprecano indegnamente. S’accontentano di ricavarne quel che serve a dar ala alle storielle grasse...
No, non raccontavano storielle grasse; nemmeno discutevano di politica. Discutevano di arte. Dovevano essere pittori, scultori o anche solo critici d’arte: gente infarinata, ad ogni modo, padrona del frasario. Giovanissimi due; vecchiotti gli altri due. E tutti avanguardisti fierissimi, principalmente i due barbogi; tutti parlanti un linguaggio complicato e astruso, pieno zeppo di quei vocaboli diabolici come spirito, idea, forma, materia, sostanza, spazio, volume, che guai chi se ne fida! Tanti i significati, quanti gli uomini che ne fanno uso. A certi momenti, avevo l’impressione che nemmen fossero gente d’arte, bensì quattro filosofi un po’ ebbri. Ma il loro discorso si fece chiarissimo quando ad un tratto ritorsero la faccia dai loro feudi nei regni del futuro e si volsero indietro a rimirare le lande del passato. Il linguaggio dei programmi e dei filosofemi, cosi arduo nelle loro bocche, acquistò un’evidenza meravigliosa diventando stroncatura e demolizione. Non più quella terminologia quintessenziale, ma concreti epiteti come bestia, imbecille, fesso, ciabattino, asino e tutti gli altri termini con cui la gente in marcia saluta passando i poveri sedentari. Perché ciascuno avesse la parte sua tutti quei reietti erano indicati con nome, cognome e patria... Un nome fece colpo nel mio orecchio: Lorenzo Prati. E la figura del mio povero amico mi ricomparve dinanzi agli occhi, come se mi si fosse avvicinato fra i tavolini per dirmi, con quel suo fare tra l’accorato e il sorridente: « Senti che simpatici discorsi? Vogliamo andarcene? ».
E uscii in compagnia di lui. « Non importa — mi diceva andando passo passo per la stradicciuola che mena a quella che fu la sua casetta fra gli orti suburbani. — Non importa. Anch’io, ai tempi della mia giovinezza, chiamai con nomi poco riverenti coloro che mi pareva d’avere sorpassato. Domani costoro saranno chiamati con nomi poco riverenti da quelli che domani saranno i giovani... ».
E troncò quel discorso e mi condusse a vedere una certa linea di colli che si disegnava come un perfetto spunto musicale sul buio vagamente fosforico della notte. Mi trasse sotto un certo portico nel cui vano la pendice di Monteverde appariva incorniciata come un quadro allucinante: biancheggiamenti di muri, larve scialbe di casette e di ville sospese nella densità di una tenebra magica...
Poi disse: « Andiamo a vedere il mio cimiterino ». Sapevo bene quale fosse il « suo cimiterino »: l’ossessione de’ suol ultimi tempi, lo sconsacrato cimiterino di Santa Brigida, il cui fantasma, diurno notturno, avevo visto emergere da tanti suoi abbozzi man mano cancellati, distrutti. « Non ci sei mai stato? », m’aveva detto la prima volta. È, era un commovente atto d’amore quel piccolo camposanto in riva al lago, sull’estrema punta del promontorio: quel muricciuolo pieno di erbe, di nidi di vespe, di lucertoline; quel salice piangente che sporge e si piega fino a toccar le acque, quei ciuffi d’oleandro... Avevano voluto, i poveri pescatori di Santa Brigida, riservare ai loro morti il sito più sereno e ridente di tutta la contrada. Ma ora Santa Brigida è diventata luogo d’alberghi e di ville; e hanno costrutto un altro cimitero, grande grande, fuori degli occhi e dei piedi. E l’antico cimiterino è destinato a scomparire: non da un giorno all’altro, poiché la legge prescrive un lungo termine. Ma non vi si seppellisce più. Non vi si brucia più, una sera di giugno, il fieno falciato sulle fosse. Il cancelletto, corroso dalla ruggine, ha dimenticato il suo perché, e lascia entrare uscire chi vuole. Lapidi e croci sono state trasportate nel cimitero nuovo. Vi si sente la desolazione e il vuoto di una casa verso la fine d’un trasloco... Nulla hanno portato via di quel che c’è sotterra; non è permesso. Ma, fra un paio d’anni, la legge permetterà. La terra sarà, come si dice, purgata. Si raccoglieranno le minime schegge, si scaverà fino alla roccia. Molti rimasugli saranno buttati nel lago. E allora il trasloco sarà finito.
Cosi allora. Ma ieri sera, con quella voce incorporea e potente che è la voce dei lontani e dei morti, potente a dire in modo credibile anche le cose incredibili, ecco che mi susurra: « Andiamoci... Ma bisognerà che entriamo piano piano, senza far cigolare il cancello. Sono là, tutti in fila, appoggiati coi gomiti sul muricciuolo, a guardare àncora una volta il loro dolce lago vestito d’azzurro nero. Ad ascoltare come respira sotto le stelle. Domani saranno sloggiati per sempre... ».
Dalla città a Santa Brigida c’è una mezz’ora buona di strada, che feci senza arrestarmi né titubare. Entrai nella viuzza buia buia che attraversa il vecchio villaggio; ed ecco la chiesetta della Santa e il suo sacratino erboso un poco smortito dal riflesso della facciata. In fondo, dietro la chiesa, il cimitero. Due passi e ci sono.
Ebbene, quei due passi, non li ho fatti. Sono tornato indietro cosi senza veder altro. Se raccontassi per la gente, forse spiegherei osservando che anche un uomo di buon senso può divertirsi a fantasticare per una mezz’ora, ma poi dice: basta. E sarà anche cosi, in parte. Certo è però che quei due passi, verso quel cancelletto di ferro, anche volendo, non avrei avuto il coraggio di farli.
Francesco Chiesa.
Collezione: Diorama 23.08.33
Etichette: Francesco Chiesa
Citazione: Francesco Chiesa, “Vacanze,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1179.