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Titolo: Suonatori di porto

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1933-09-13

Identificatore: 1933_399

Testo: Suonatori di porto
Si, mi sarebbe piaciuto fare il pirata, se fossi nato in altri tempi. Scorrazzare i mari su di un tre alberi senza bandiera, nutrirmi della galletta e del mosciame rubati sul trabaccolo di qualche mercante dell’arcipelago, bere il vino dei suoi barili, assaporar la delizia delle cose conservate durante una notte d’inseguimenti bordeggiando fra le insenature delle isole...
Mentre penso queste cose i marinai accovacciati sopra coperta si raccontano storielle scurrili e ne ridono, ne ridono. E il porto addormentato tace, e il maestrale ha cessato di soffiare da poco.
— Ehi — fa una voce più forte delle altre — non potreste inchiodarvi la lingua al palato? Non sentite che suonano a bordo del « norvegiano »?
Il « norvegiano » sta scolpito al di sopra delle acque: la chiglia rigonfia
— il ferro grigio delle fiancate è riemerso da quando le cucchiaie delle gru hanno svuotato le stive delle merci alla rinfusa — le opere morte, i fumaioli appiattiti destinati a dimostrare, coi pochi batuffoli di fumo grigio che infittiscono la tenebra notturna, come dentro le cavità di quell’edificio vi sono, al pari di ogni nave, gli uomini della ciurma. Perché la musica questo non lo dimostra di certo. Si leva un lamento lungo — grammofono o strumento a corda?
— soffocato ogni tanto, poi ripreso con l’accompagnamento di piccoli colpi secchi battuti sopra un piano metallico. E non s’intravedono sopra coperta, come quasi sempre avviene, i biondi dinoccolati marinai di Bergen che danzano soli dondolando il capo e battendo le mani.
Il nostromo, quel vecchio barbogio che ha girato mezzo mondo, ha detto un giorno che in Norvegia, fra i fiordi, esistono ancora le streghe. Nessuno può togliermi dalla testa stanotte che nelle stive vuote di quel vapore da grosso carico qualche vecchia strega in esilio si diverta a battere a quel modo le noccole sulla lamiera spessa. C’è però una vena dolce in quel ritmo aspro, e per questo il marinaio ha invitato a tacere. A bordo del nostro vapore gli uomini fumano o fingono di sonnecchiare per non apparir commossi. Il silenzio regna al di sopra dei pennoni dei velieri che la bonaccia ha dannato all’immobilità, sulle acque di piombo fuso solcate in direzione dell’imboccatura del porto da un’evanescente scia di argento liquido, a terra condensato quasi nei coni di luce fredda dei fanali che piove dall’alto sul piazzale dove il guardiano notturno intabarrato si ripiega su se stesso, come facciamo noi, e aguzza gli occhi per scoprire il mistero delle streghe.
Intanto dai pertugi umidi della banchina appena mascherati dal velluto verde della vegetazione marina, escono cautamente le talpe. Ma anziché salire sui cavi degli ormeggi fino a bordo, per rifornirsi nelle stive, si soffermano anche loro estatiche, con gli occhi di brace, in ascolto della canzone nordica.
Sull’andana intanto, laddove contro i bastioni medicei si proiettan le ombre smisurate dei bastimenti attraccati, sguscia una sparuta figura di donna.
— Dovrebbero impedirle di aggirarsi per il porto — biascica il nostromo masticando il tabacco forte.
— Che male c’è?
— Per i marinai tanto. Intorbida la loro anima. Non è vero, ragazzo?
Proprio a me il nostromo rivolge la domanda, a me che sono l’ultimo di bordo e i marinai quando nella cuccia non riescono a prendere sonno irridono la mia ingenuità.
— È vero — dico con voce malferma e riprincipio, a somiglianza del rullo dell’argano su cui la corda si sia per breve tempo attorcigliata, a dipanare i miei pensieri, favoriti da quella musica: — Sì, vorrei essere capitano di un tre alberi senza legge e tener nella mia cuccia una donna scovata nascosta fra il carico di una nave predata. Senza abusarne, veh!, anche se la notte è afosa e la tentazione cocente, e l’aria tanto greve da non far procedere il bastimento di una lega durante l’intera nottata. Monterei la guardia davanti alla cabina perché nessuno della ciurma osasse fare quello che io non voglio. Direi a quei vecchi gufi di marinai dall’aria sempre famelica: « Guai a chi s’avvicina, guai a chi si lascia vincere dalla tentazione. Correte piuttosto in cambusa a vuotarvi un altr’orcio di vino »; poi, avvicinandomi cautamente alla cuccia e cercando di scoprire gli occhi tremebondi di lei: « Non ti verrà tolto un capello, fanciulla, non temere. Dimmi piuttosto: qual è il tuo nome? Se non ti lascerai vincere dalla paura e abbandonerai il tuo folle proposito di gettarti in mare, ti libererò dai lacci e potrai al mio fianco goderti l’aria pura e il chiaro di luna. I marinai mi temono e ti guarderanno con rispetto. Il vento presto gonfierà le vele e ci porterà verso un porto sicuro... Ti piacerebbe divenire la capitana di un vascello di pirati? ».
Intanto si è rifatto silenzio sul «norvegiano » e le luci della nave vuota si sono spente quasi tutte. Due piccoli fanali rossi — uno a poppa e uno a prua — ardono come due lampade votive alle porte di un cimitero. Se ci avvicinassimo si udrebbe, fra lo sciabordio che fa l’acqua, un respiro forte ed eguale: quello delle streghe che han cessato di cantare.
Ma hanno preso a suonare ora verso la parte opposta del porto, a bordo dell’« irlandese »: un’armonica questa volta. Il « Dublino » ha scaricato carbone di Cardiff tutto il giorno e non si direbbe, così annerito com’è dallo spolverio del minerale abbrancato dalle cucchiaie della gru e portato attraverso il binario aereo sul piazzale — quella specie di contagio nero che si estende sulle acque e non salva nemmeno il capitano biancovestito che si sbraccia sopra coperta — non si direbbe, dico, capace di diffondere una musica cosi commovente come quella che giunge fino a noi in questo momento. C’è, nelle vibrazioni dell’armonica, come un nodo di pianto che stia per sciogliersi, un incanto tremulo simile all’argento della luna che ora inonda il centro del porto e toglie al « norvegiano » l’aria truce di poco fa...
— Beoni, beoni impenitenti — dice il nostromo.
Infatti arranca verso il « Dublino » una barca con uomini di bordo avvinazzati. E quando, a balzelloni, dopo aver a lungo vacillato sulla scaletta, riescono a metter piede a bordo, l’armonica che aveva cessato di suonare riprende su di un ritmo pazzo soffocato dai gridi degli ubriachi che han preso oscenamente a danzare.
Il nostromo allora afferra il megafono ed urla contro di loro qualcosa in inglese. Anche in porto, ch’è la casa di tutto il mondo, dopo la mezzanotte deve essere rispettata la legge della buona creanza. Rispondono delle bestemmie. Poi, dalle due parti: — Good night... Good night... E di nuovo silenzio, un silenzio che può esser rotto solo, e senza che nessuno protesti, dal suono del piffero di canna del marinaio indiano, dalla voce calda e un po’ languente del pescatore di Pozzuoli che si appresta a salpare per gettar le reti al largo, o dal canto levantino accompagnato dal violino smirnioto — il « greco » è partito stamani — intonato da una voce gracile in cui vibra un debole accorato desiderio di sentirsi schiavo (Mia Smirnià, Mia Smirnià stu paratiri... ) mentre i marinai sdraiati intorno al cantore sgranano dei grossi rosari le cui estremità tengono legate ai polsi... Anche lo « spagnolo » è partito prima del tramonto e non udremo stasera le note della « pettinera andalusa » accompagnate dalla chitarra e dal cembalo. E il marinaio gallese che suonava la cornamusa a bordo del « Dublino » si è finalmente placato, stanco di andare avanti e indietro col suo otre fra le braccia simile a un fantolino deforme che ogni tanto cominci a miagolare e si taccia e qualche volta sospiri sul serio.
— Dunque — mi sospinge il marinaio più anziano che in vent’anni di navigazione non è riuscito a passar timoniere e che nondimeno conosce i miei pensieri — ti piacerebbe fare il pirata?
— A letto, a letto — urla il nostromo.
— Pirata, pirata. Non si è mai visto a bordo un vanesio come te capace di pensare tante cose assurde e di piangere insulsamente come fai ora.
— Stupido, stupido. Non vedi che è il fumo della caldaia ed anche tu hai gli occhi umidi, umidi dico?
Intanto a bordo del « norvegiano », benché baluginino a poppa e a prua i due soli minuscoli fanali rossi, riprende il lamento solito. Le streghe ticchettano ancora le noccole delle vecchie dita sulla lamiera spessa.
Penso di nuovo: — Vorrei essere pirata.... — Ma son preso da uno sgomento improvviso: dentro di me, come una gran gru che insinui il braccio dentro una stiva e lo ritragga, e ve lo cacci di nuovo per qualche opra, una mano entra e toglie e mette qualcosa e vi lascia, ad ogni attimo, dei vuoti paurosi, e scava, scava, incessantemente...
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.09.33

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Citazione: Riccardo Marchi, “Suonatori di porto,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1209.