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Titolo: Fine di un borgo

Autore: Nino Savarese

Data: 1933-09-20

Identificatore: 1933_409

Testo: Fine di un borgo
Il borgo sorgeva nella parte più piana del feudo. Vi si giungeva dalla valle e dalle colline, quasi all’improvviso, e pareva di trovarlo li per caso.
Il conforto di convivenza che affermavano quelle case raccolte intorno ad una chiesetta, con lo stelo del fumo sui tetti, si smarriva subito nella nudità della terra circostante, dove non compariva più né un albero, né un’altra casa, a perdita d’occhio.
A sera, la luce di quelle poche finestre non aveva la compagnia di altre luci che chiamassero da lontano, come gli altri paesi che dalle creste delle colline o dal cocuzzolo dei monti sembravano farsi segno anche con un lume solo, come se si aiutassero a reggere da un capo all’altro lo smarrimento della notte.
Allorché si faceva buio, le tenebre scendevano su quelle case come se rovinassero dall’alto, ed il borgo era lanciato, come un’arca, nel mare dell’oscurità.
Intorno a quel giro di case, la terra era coltivata e zappata, che non vi si vedeva quello sparso di rifiuti e quel pesticciato che circondano i luoghi abitati: nel tempo della semina i massari giungevano con l’aratro si può dire sulle soglie.
Gli abitanti erano quasi tutti appartenenti al feudo, ed a seconda che sulla loro porta si vedeva la pertica dell’aratro o il carro ed alle finestre le canestre delle ricotte o abbondanza di legna nel cortile, si conosceva se quelli che vi abitavano erano massari o pecorai, casari o boscaioli.
I ragazzi aspettavano tra quelle case di raggiungere l’età per guardare le pecore; le ragazze quella di prender marito, sospirando a quelle finestre i rari ritorni dei pecorai.
In così poco spazio, gli amori erano senza mistero, le angustie senza segreti, e tutte le distanze si potevano misurare con la voce: la comare che era chiamata, rispondeva da un capo all’altro della via come da un punto all’altro di un cortile.
Le rare volte che il padrone del feudo attraversava il borgo a cavallo, se lo portava dietro tutto, fino al limite delle case, come una chioccia.
* * *
Era sorto circa sette secoli prima sulla parola di un Re, che aveva concesso a un barone la facoltà di « congregar gente », e un altro Re ne ordinò la distruzione per punire un suo vassallo ribelle.
Ad eseguir l’ordine mandò il suo Grande Ammiraglio, che era un Duca spagnuolo.
Le donne e i ragazzi che stavano sempre tra quelle case, come potevano mai sospettare che si potesse sovvertire l’ordine di quella realtà che avevano trovato venendo al mondo? Il sole segnava sempre quelle strisce sulle vie, giungeva sugli usci a terreno, mutando ora secondo la stagione, come un viandante prudente; entrava anche da uno spiraglio nei recessi più intimi a svegliare la fatica delle massaie o a fugare, con un sorriso, le paurose inquietudini delle ragazze... Eppure anche il sole avrebbe mutato faccia, una volta demolite le case.
Il paesaggio che vedeva il signor Duca dalla finestra, dalla quale aveva accennato a quell’ordine, era molto diverso da quello di oggi: gli ulivi che avevano piantato gli Arabi, non avevano tronchi così grossi e cavernosi come hanno ora; i boschi, folti e numerosi, coprivano i monti e le valli, che ora appaiono brulli e come freddolosi sotto la tramontana.
Nella via la scena era di ben altri colori, e le vesti di ben altre fogge.
I borghigiani ribelli non fecero in tempo a tirarsi dietro tutti i loro animali nella fuga precipitosa, e specie maiali e galline che per lunga consuetudine stavano tutto il giorno sparsi tra le case e sullo stradone fiancheggiato di fichidindia che attraversava l’abitato.
« Dalle fondamenta » diceva l’ordine del signor Duca, ed i Cavalieri Catalani che dirigevano le operazioni lo ripetevano a voce alta ai soldati che non si mostravano abbastanza radicali.
Morirono i più tardi ed i più cocciuti; il grosso degli abitanti, dopo quello sparpaglio disorientato e frettoloso che succede alla devastazione di un formicaio, si trasferì nella vicina città in luogo appartato, dove stabili un nuovo quartiere, che ancora oggi presenta una piccola differenza nel costume ed una leggera variante nel dialetto.
Così alle volte secoli di storia non giungono fino a noi altrimenti che per mezzo di un segno, di un suono, di una leggera ombra sulle pietre.
Le case del borgo, scoperchiate e diroccate, conservarono per molti anni l’aspetto di abitazioni, ma in realtà servivano di ricovero ai pastori, di tane alle volpi ed alle faine.
Quelle cose che non avevano potuto portar via i rispettivi proprietari, le portarono via a poco a poco i contadini del contorno. Per lungo tempo chi ebbe bisogno di pietra per fabbricare, di vecchie travi per costruire una capanna, di tegole per coprire il tetto di una stalla, di una mezza porta per chiudere un pagliaio o di un pezzo di ferro vecchio, andò a caricarli dalla carcassa del borgo distrutto.
Dopo qualche tempo non si poteva dire nemmeno che quelle fossero delle rovine, ma un mucchio di pietrame scompigliato, in mezzo al quale crebbero alte le spine e le erbaccie che pareva avessero una gran fretta di nascondere ogni vestigio, cancellare ogni ricordo.
Poi ci fu chi pensò che quello era pure un ottimo terreno da seminare, con tutto quel sedimento di sporcizia che vi aveva accumulato la vita di tante generazioni, nate, cresciute, e morte in quel punto, e così il terreno fu prima spietrato, poi dissodato e finalmente ci fu chi vi sparse le sementi.
* * *
Cresciutovi un’altra volta il grano, dopo tanti secoli, la luce delle finestre, il volto e la voce delle donne, l’intimità delle case sembrarono un sogno della solitudine.
La terra nuda ed il cielo tornarono ad unirsi nella loro usuale e silenziosa comunione.
Il cielo, che visto tra tetto e tetto nel fondo dei vicoli aveva dato agli uomini l’illusione di farsi familiare, di lasciarsi associare al loro destino, chiudere, quasi, nella cornice dei loro sogni, delle loro speranze e dei loro dolori, ora pareva respingere ogni ricordo, commiserando gli uomini, ma dilagando lontano nell’immensità. E il sole che giungeva sulle soglie ed entrava per le finestre con tante variate movenze, ora cadeva sulle pietre sparse con una fissità inflessibile.
* * *
Su quel nuovo grano tremò, ancora per qualche tempo, il ricordo di qualche viandante che sapeva dove era stato il borgo, ma poi nessuno se ne poté più ricordare.
Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 20.09.33

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Citazione: Nino Savarese, “Fine di un borgo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1219.