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Titolo: Bagni di fango

Autore: Arnaldo Frateili

Data: 1933-10-04

Identificatore: 1933_429

Testo: Bagni di fango
Piana, nome molto noto tra gli artritici della regione, pare un paese fatto col fango. Le sue strade sono grigie e grigio l'intonaco delle sue case, come se il fango avesse dilagato dal sudicio stabilimento termale. Questo colore di Piana non è il grigio plumbeo del fango vivo, com' esso bolle nella pozza dove gl’inservienti l’attingono coi secchi e lo portano nelle vasche, per distenderlo caldo e pesante sulle membra inferme. È il grigio chiaro del fango quasi secco, che imbratta i corridoi dello stabilimento e i bagnanti ne raccolgono sempre un po’ con le loro scarpe. Anche la campagna intorno è grigia di crete che impolverano l’aria, mortificano lo splendore del sole, e a ogni pioggia si trasformano in acquitrino. Gli abitanti del paese hanno i vestiti impolverati o infangati, a seconda della stagione. I malati, che vi soggiornano nei mesi d’estate, impallidiscono per l’afa. Ma i più vengono solo pel bagno, con gli autobus che li scaricano la mattina e li ricaricano sul mezzogiorno. Sono gente della provincia, che discende a fatica dalle vetture e cammina appoggiandosi al bastone. Vengono anche monache e frati, perché ci sono numerosi conventi nei dintorni. I loro sai, grevi e scuri nella polvere arsa dal sole, fanno sembrar più insopportabile il caldo del luogo. Nell’aria c’è sempre fermo un odore di sudore, e le mosche ronzano dappertutto.
Da una settimana che Lucia è scesa a Piana dal suo paese per la cura dei fanghi, ha sempre l’impressione di soffocare e d’avere la carne tutta sporca. Quella sua carne, bianca e tesa, prima aveva vergogna di farla vedere anche alla madre. Ora invece il dottore tutte le mattine s’indugia a esaminarla. Neppure il fango vi lascia un’impronta tanto bruciante e untuosa, come lo sguardo di quei lunghi e smorti occhi di pesce che ha il dottore. Anche gli uomini di Piana hanno un modo di guardarla che l’infastidisce. Che porta addosso, da attirare l’attenzione? Pensa che ridano del suo corpo grande e grosso, che a quindici anni pare già d’una ragazza di venti, e ha ancora le trecce sciolte sulle spalle. Invece lo sguardo di Albertino, il figlio della signorina Gertrude proprietaria dello stabilimento (come una signorina possa avere un figlio è un’altra cosa che Lucia non capisce), le fa compagnia, le dà quasi un sollievo.
Albertino le gira sempre attorno, le sorride coi suoi occhietti vispi, e qualche volta le dice: « Come sei
bella! », arrossendo come per una cosa che non si dovesse dire. È un bimbo gentile, benché stia tutto il giorno a giocare nella polvere del piazzale, a piedi scalzi. Lucia ha sentito dire che ha dodici anni, ma pare davvero un bimbo così pallido e malcresciuto. Gli vuole bene come a un fratellino, perché vede che la madre sua lo trascura, e si ricorda di lui solo per rimproverarlo con quella voce imperiosa. Anche adesso Albertino la sta guardando. S’è seduto dentro l’automobile del dottore ferma davanti allo stabilimento, agita le mani sul volante fingendo di guidare la vettura in corsa, e invita cogli occhi Lucia a prendere parte al gioco. Ma la ragazza oggi è triste perché la mamma deve andarsene per un giorno, e la lascia sola nella pensione. L’autobus è già pronto a partire, carico di gente silenziosa, sfinita dal caldo e dalla cura. La mamma, sempre timida, sempre in pena, s’attarda sulla porta della pensione a parlare con la signorina Gertrude che non l’ascolta.
— Mi raccomando, l’affido a lei. È ancora una bimba tanto ingenua.
La signorina Gertrude ha un sorriso ironico nei suoi occhi duri, dietro le lenti spesse che le ingrandiscono esageratamente le pupille. Magra e nervosa nel camice candido da infermiera, domina a testa alta il movimento del piazzale e grida come un generale che stia comandando una manovra.
— Le ho detto di star tranquilla, ci penso io Albertino, esci subito dall’automobile del dottore! Pietro, pezzo d’asino, ti ho ordinato di prendere il bagaglio del numero dodici. Arrivederla a quest’altr’anno, signore.
L’autobus romba, si scuote, s’allontana traballando pesantemente in un nembo di polvere. Lucia si siede su una panca bassa, all’ombra magra d’un’acacia giovane. Il dottore esce nel piazzale e si ferma a guardarla, con la testa scoperta sotto il sole.
— La mamma è partita? È rimasta sola?
Chissà perché ha una voce così agitata, si capisce che vuol dire anche un’altra cosa. Ma guarda confuso la porta della pensione, su cui è ricomparsa la signorina Gertrude. Allora sale con un’aria indifferente nella vettura, e se ne va anche lui. Albertino lo segue con occhi pieni di desiderio.
— Come mi piacerebbe che il dottore mi portasse una volta almeno fino alla stazione! Non sono mai stato in automobile — esclama il
bambino con un sospiro.
*
Il pomeriggio è stato afoso e irritato da un canto stridulo di cicale. Le mosche pungevano, succhiando il sangue. Albertino, inquieto e aggressivo, ha finito per essere picchiato dalla mamma e rinchiuso nel solaio. Verso sera grandi nubi sono montate nel cielo, e vi hanno fatto uno sfondo nero e compatto su cui le case del paese hanno preso un colore livido, quasi bianco. Caduta la notte ha incominciato a piovere, ma il temporale rombava ancora lontano.
Durante il pranzo Lucia s’è stretta nella solitudine del suo tavolo, benché ora fosse per lei anche troppo grande. Ha sentito intorno fare strani discorsi, a cui le altre sere non prestava attenzione perché parlava con sua madre. Dicevano della signorina Gertrude, del figlio che aveva avuto a sedici anni senza mai voler confessare chi era stato, di una relazione che aveva adesso. Lucia capiva solo che non avrebbe dovuto ascoltare. Si sentiva oppressa da una malinconia, che è diventata angoscia man mano che il temporale s’è venuto avvicinando. Aveva l’impressione d’un mondo ostile, pericoloso. Pensava che ora, nel buio, tutto il paese doveva essere trasformato in un mare di fango.
S’è ritirata presto nella sua cameretta all’ultimo piano. Andando a letto ha lasciato aperti gli scuri, perché dalla strada entri il chiarore della lampada agitata da un vento d’uragano. Entrano anche lampi vividi, seguiti da tuoni che fanno tremare i vetri della finestra. Tutta la casa scricchiola e geme, come per il terremoto. Lucia non ha paura, ma non può dormire. Le par di udire un soffio di voce che la chiami dietro la porta, e quando la porta si apre lentamente pensa che sia un’allucinazione.
— Lucia!
Lucia è balzata sul letto, col cuore nella gola. Vede Albertino che richiude piano la porta, e resta fermo nell’ombra avvolto in un lungo camicione bianco.
— Che vuoi?
— Ho paura. La mamma veglia un malato, e m’ha lasciato solo. Mi fai stare un po’ con te?
— Mettiti lì, sulla poltrona. Se hai freddo, prendi quella coperta. Ma è una vergogna all’età tua aver paura d’un temporale.
Le pare che gli occhi del bimbo, così timidi un momento prima, ora abbiano un. lampo di malizia. S’è seduto sulla poltrona, vicino alla finestra che illumina con un riflesso oscillante il suo visetto pallido.
— Dormi — dice Lucia. È contenta di sentire il bimbo lì vicino, il bimbo che le vuol bene e le dice ingenuamente: « Come sei bella! ». Le pare d’essere meno sola, e che ora potrà dormire tranquillamente.
Ma non può dormire, finché si sente guardata con tanta insistenza. Gli occhi d’Albertino non si chiudono; le pesano addosso con una fissità ambigua, che le fa ritirare istintivamente le braccia che teneva nude sopra la coperta. Le ricordano gli occhi del dottore, non per la forma e il colore, ma per qualcosa d’ansioso e di supplichevole che vi vede tremar dentro. Albertino s’è alzato dalla poltrona e avvicinato al letto, dove resta in silenzio come se volesse parlare e non ne avesse il coraggio.
— Fai i fanghi anche alle gambe? — le domanda infine con una voce incerta, appoggiandole dolcemente, timidamente, una mano sopra un ginocchio. Attraverso la coperta Lucia sente il tocco della piccola mano, che trema come quella del dottore quando la visita. Vorrebbe sottrarsi, gridare, respingere quel bambino, quell’uomo che già dentro ha qualche cosa di oscuro come gli altri uomini. Ma è tanto lieve quel tocco, forse Albertino neppure s’accorge d’aver posato la mano sopra il suo corpo. Lucia resta ferma, trattenendo il respiro, con un senso d’attesa e di ribrezzo.
— Albertino! — chiama nel corridoio la voce irritata della signorina Gertrude. — Dove ti sei cacciato?
— È qui — dice forte Lucia. È contenta che venga la madre a riprenderlo, che magari lo punisca; le pare di liberarsi d’una cosa brutta.
La signorina entra di colpo, accendendo la luce elettrica. Le sue enormi pupille hanno uno sguardo cattivo dietro le lenti, quando vede il bambino vicino al letto.
— Che fai qui? L’immaginavo. Fuori subito!
Albertino trema confuso, vergognoso, con gli occhi su cui già spuntano le lagrime. Lucia prova d’improvviso guardandolo una pietà di lui, di quella cosa oscura che hanno dentro gli uomini; un sentimento quasi materno.
— L’ho chiamato io, perché avevo paura di star sola col cattivo tempo
— dice Lucia accarezzando il capo del bambino. — Non lo sgridi, è colpa mia. Addio, Albertino, dammi un bacio. Buona notte.
*
La mattina dopo Lucia sta sul piazzale, aspettando la mamma che ritorna. Il temporale della notte ha lavato l’aria, ravvivato gl’intonachi delle case, spazzato la polvere che s’è rovesciata in torrenti di fango nelle fosse. Albertino, al solito, s’è ficcato nell’automobile del dottore e muove le mani intorno al volante, chiamando Lucia con voce allegra. I bagnanti cominciano a uscire dallo stabilimento, tra poco verranno a riprenderli gli autobus. Esce anche il dottore, cercando Lucia coi suoi occhi di pesce. Ma oggi è la ragazza che gli viene incontro con un sorriso così disinvolto che anche il dottore le sorride senza alcun impaccio, e resta a guardarla sorpreso di trovarle qualche cosa di nuovo, di più fermo e maturo, che non aveva notato nei giorni precedenti.
— Senta, dottore — dice Lucia.
— Questo ragazzo sarebbe tanto felice di provare una volta come si va in automobile. Gli faccia fare un giretto, per accontentarlo.
« Bel sorriso, pensa il dottore, già di donna che conosce il suo potere sugli uomini ». L’automobile parte. Lucia segue con uno sguardo affettuoso Albertino che grida inebbriato dalla corsa, e la saluta con la mano.
Arnaldo Frateili.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 04.10.33

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Citazione: Arnaldo Frateili, “Bagni di fango,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1239.