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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1933-10-25

Identificatore: 1933_461

Testo: Calcomanie
L’amorino
Per la scarpata viene lungo il treno un amorino, mezzo seppellito sotto il berretto regolamentare, con la cassetta d’arance a tracolla.
È timido per ora. M’indica la sua merce. Piccoline, ma sottili di buccia e sanguigne. Sceglie la meglio, la soppesa, la regge pel picciolo. Con la foglia attaccata, non vedo? Spiccata adesso alla pianta, gelata della notte: un sorbetto.
« Wie viel? ».
M’aiutano nella mistificazione le lenti alla Harold Lloyd. Se la mia parte non sarà brillante, come con queste deposizioni prevedo, uno schermo di carta non guasterà. E poi voglio mettere l’amorino a suo agio con lo straniero e godermelo nella sua mimica come la pesca nella sua buccia.
Staccando bene le dita, l’amorino m’apre in faccia le due mani. Tenessi niente alla sua stima, due dovrei contrapporre al suo dieci e, se esitasse, voltargli le spalle. Ma a volo egli ha colto nei miei occhi l’assenso; già rimpiange di non aver avuto un’altra mano a disposizione. L’incontinenza ha compromesso la mia autorità; tanto vale che vi lasci anche il decoro ma ceda al mio estro. Mi ripugna in quest’alba a questo amorino contare degli spiccioli e gli consegno una moneta scintillante.
Dall’avidità con cui, egli fa sparire quel lampo nel pugno, da quello scrigno è deliberato, capisco, a non lasciarlo più uscire. Ma alla sua guisa intende guadagnarselo. Anche lui ha il suo punto d’onore.
Per cui, messa prudentemente la scatola da banda, inizia una pantomima intesa a persuadermi che non ha su di sé un centesimino. Basterebbe, per smascherarlo, che la mia preferenza andasse, vedi un po’, a quell’arancia d’angolo: ho ben visto dove tiene il ripostiglio dei resti. Ma preferisco godermi sino in fondo lo spettacolo ch’egli mi dedica, senza saperlo, a ufo.
Rovescia le tasche, la fodera del berretto; poco manca si cavi le scarpe. È desolato. Come fare ora? Nel maneggio porta persino la mano alla coscienza. Simulo malumore. La mia arancia, allora, andiamo!
Tanto prima dello sparato la vittoria gli capita addosso, che l’amorino impiega un momento a riaversene. È come un’acquata da cui debba prima scrollarsi. Cuccagna. Il suo disprezzo è maiuscolo. Mi farebbe boccacce se non gli fosse balenato di meglio.
Arretra un po’; mi sogguarda, si gingilla. Ha la grazia davvero d’un gattino nato per scherzare e acciambellarsi al sole.
Che proprio ci tengo all’arancia? È palliduccia, non vedo? Aspra, tutta semi.
A denigrarla mette il calore che poc’anzi a vantarla. La indica, strabuzza gli occhi, risputa avvelenato.
— Puah! Davvero che non avrei a rallegrarmene... Se gliela lasciassi...
Ah rospetto. Mi spazientisco e la mia impazienza non ottiene che di fargli mutar strada.
— Non si inquieti il signore! Per certo ch’egli mi deve un’arancia. Ma un’altra non farebbe lo stesso? Quella è l’insegna della sua bottega e lì è tutta la sua merce. — Di colpo si attrista. Gli occhi lunghi parlano di miseria, di madre a carico, di chi sa che altro ancora. Tenta la corda patetica, tira ad impietosirmi.
Ah piccola peste. Batti una strada falsa. Se ti lasciassi fare, a momenti mi mostreresti i lucciconi dal vero.
Mi fìngo furibondo, avvento su il cristallo.
L’amorino esulta. Ho messo il colmo alla sua gioia. Già allunga verso altre vittime il piede, già se la batte.
Che improvvisa importanza gli scopro nelle reni! Per piccola che sia, la moneta fa comodo; ma solo scroccata dà gusto. Moneta guadagnata quasi non ha corso.
So bene che fatti pochi passi l’amorino si volgerà e con che riso! Ma io non assisterò al suo trionfo. È il solo piacere che gli rifiuto, se anche il più grosso.
Pel tuo bene, rospetto. Sei cosi bello adesso, arruffato e gonfio come il passerotto che ha nel becco il lombrico! Non vorrei tra un momento ti trovassi a frignare davvero, privato del maltolto e scrollato per le orecchie. Non si può garantir sempre di sé.
Incontro
Non l’avevo rivisto da anni e nulla in lui appariva mutato. Si teneva in mezzo al corridoio, solo e come incerto dove dirigersi. Nell’indecisione gli occhi celesti erano sbarrati su di me.
Gli mossi incontro salutando e facendo atto di prendergli le mani. Vivamente gridò di non toccarlo. Ma non arretrò né scompose sul ventre il placido nodo delle mani grassocce. La voce era quella di una volta: spaventata ma intatta.
« Chi sei? non ti vedo ». Sotto gli occhi che mi guardavano, mi nominai. Disse subito: « Ti riconosco. Sei un antico allievo. Mi ricordo di te perfettamente ». Dal tono, qualunque nome avessi fatto, capii che la risposta sarebbe stata quella. Poi, come in una predica citasse il detto di un santo: « Da un anno duro in questa notte. Che la volontà di Dio sia fatta! ».
Un inserviente, che già aveva fatto capolino, l’accostò a questo punto a controvoglia. Veniva a prenderlo. Scorgendo il mio disagio, un sorriso mentecatto gli nacque all’angolo della bocca.
« Si — spiegò — è la diabete. Ha gli occhi aperti e non vede. Sì, dove si tocca annerisce. È il sangue che si guasta. La minima scalfittura fa piaga. Alla notte predica. Si. Degli anni può durarla ».
Parlava come l’altro fosse pure sordo. Buttava i particolari, guardandomi di sotto in su, con derisione. Pareva godesse ad accumularli per assistere al mio stupore.
Quando tacque, il colosso, che non aveva dato segno d’udire, accennò col capo che così era; dall’alto, solennemente, come il « numero » vantato dall’imbonitore.
Era paura vedere come di quel disfacimento così poco di fuori apparisse; appena, a ben guardare, un appannamento negli occhi innocenti sbarrati e, in quella fabbrica d’ossa, il principio di pinguedine che stiracchiava le asole.
« Sì — disse ancora colui. Poi toccò nella manica il colosso: — Andiamo » e il fastidio gli ricadde sulla faccia.
Docilmente il colosso si mosse: i pochi passi che spingeva ogni giorno pel corridoio, guidato alla voce.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 25.10.33

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1271.