Paura pomeridiana (dettagli)
Titolo: Paura pomeridiana
Autore: Leo Longanesi
Data: 1933-11-01
Identificatore: 1933_470
Testo:
Paura pomeridiana
Il mare celeste, il cielo chiaro, le voci bianche, i ciuchi al sole, le cicale, i tedeschi, i rumeni, gli armeni, i russi: oh, io non tornerò più a Positano!
*
Una serenità che non consente riflessioni, una pace da ramarri, un silenzio affricano che nessun grammofono può animare, coprono questo bianco paese. La garza trasparente, tesa contro le finestre e le porte, per difendersi dalle zanzare, mostra i contorni di un paesaggio scolorito, come attraverso una ragnatela. E la malinconia che coglie in queste ore solenni, è più insistente d’ogni altra; nulla più del sole reca tristezza al viaggiatore perduto in un pomeriggio d’agosto nella stanza di un albergo. Gli spettri delle ore infuocate del giorno sono più sinistri di quelli della notte; tutto è immobile e giganteggia, anche la più umile cosa. Leggendari sembrano i rumori e le voci.
*
Nella mia stanza, appare in un angolo un vecchio armonium meccanico che suona da solo, introducendovi due soldi. Il suo silenzio e la sua polvere mi destano timore; più cerco di distrarmi volgendo lo sguardo altrove più sento la sua paurosa e muta vicinanza, come se dietro alle mie spalle avessi una tomba di legno.
Non riesco a difendermi dal pensare a questo vecchio strumento che ho visto di sfuggita.
Finalmente, come per liberarmi da un incubo, mi volto e l’osservo. I tasti sono ingialliti come una vecchia pipa di schiuma; dietro il leggio, una lastra di vetro mostra un rullo di carta traforata, l’oro dei fregi è ormai stinto ed il legno ha lo strano colore delle porte delle antiche chiese.
Introduco una moneta, ma non odo alcun suono; vedo solamente girare il rullo e battere i tasti come toccati da una mano invisibile.
Turbato, già preso dal pregiudizio di misteriose influenze degli spiriti sugli oggetti abbandonati, lascio l’armonium e vado nella stanza accanto a coricarmi in letto.
*
Il coro secco e compatto delle cicale s’è disteso nella breve vallata. Nell’aria calda che odora di calamaretti fritti ronzano le mosche.
A un tratto, e avevo appena chiusi gli occhi, mi giungono lente e stanche, interrotte da soffi, le note della Marcia Nuziale. I polmoni dell’armonium hanno respirato contro i fori del rullo di carta.
La musica langue per qualche secondo, poi si spegne, e ritorna nelle stanze uno strano silenzio che non riesco a vincere. Allora mi alzo dal letto e corro alla finestra. La strada è deserta, le imposte delle case vicine sono chiuse.
Cerco di occupare il mio tempo leggendo un vecchio libro di preghiere che odora di chiuso, ma non riesco a prestarvi attenzione. Le parole scorrono sotto i miei occhi senza ch’io le intenda, e cresce in me quello strano disagio di chi è sopraffatto dalla paura e non trova pace in nessuna cosa, e vive in un continuo variare di pensieri.
I vecchi mobili della stanza mi attraggono; apro ad uno ad uno tutti i cassetti, vuoti, foderati con vecchi giornali coperti di polvere. In uno, trovo uno specchio rotto e un ciuffo di capelli. Tento di richiuderlo ma il legno cigola senza muoversi, Più faccio forza, più la resistenza cresce. Il cassetto rimane aperto, sporgendo dal comò. Anche gli altri cassetti non si chiudono, e debbo lasciarli così, come se un ladro in fretta li avesse frugati. La stanza diventa ancora più paurosa; tutti i neri ritratti dei defunti, appesi alle pareti, sono inclinati dalla stessa parte. La testa di una statuetta di gesso ritta su un cavalletto mi casca fra le mani. Rotta, era stata appoggiata sul collo senza curarsi di attaccarla. Impaurito dalle continue sorprese di questo luogo, decido di vestirmi e uscire. Ma non riesco a trovare più una delle mie scarpe. La paura m’incalza ancor più al fantastico pensiero di uno scherzo degli spiriti. Mentre cerco in ogni angolo della camera da letto, rivedo a un tratto, attraverso la porta socchiusa, la sagoma solenne dell’armonium e mi ronzano all’orecchio le note stanche della Marcia Nuziale di poc’anzi. Resto immobile per qualche secondo; le orecchie mi si infiammano, e sudo freddo di paura. Ho l’angosciosa impressione che dietro alle mie Spalle mi attenda una sorpresa, e resto fermo, chinato a terra, con le mani sul pavimento, senza sapere come mai potrò salvarmi da questo precipitoso correre della mia fantasia verso il mondo delle antiche paure.
Il volare di una mosca che si posa sulle mie mani mi rincuora leggermente. Mi sforzo di prestare attenzione a questo insetto, di osservarlo, di distrarmi seguendo il suo vagare da un punto all’altro, e a poco a poco mi muovo. La mosca mi fa compagnia, e mi salvo. Appena in piedi, dopo varie e curiose finzioni compiute verso me stesso per illudermi di non aver timore, raggiungo la porta e corro a precipizio giù per la scala, come inseguito dai cassetti aperti e dall’armonium. Finalmente sono in istrada!
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La polvere calda della strada è segnata dalle ruote di un bianco carro funebre che sosta davanti alla casa della mia vicina, Maria Gambardella, madre della fu Luisa, di anni tre, morta ieri sera per aver ingoiato un ago.
S’ode il pianto della madre come un disteso lamento che incanta i ramarri sui muri infuocati, e contro il cielo chiaro appare l’angelo di legno del carosello dei bimbi morti.
*
La sera scende come un sipario d’argento su questo fantastico luogo. Gli erti scogli sprigionano cupe ombre romantiche per nascondere i navigli corsari che salgono dal fondo del mare; e cantano le sirene, le primedonne napoletane annegate nel golfo.
Leo Longanesi.
Collezione: Diorama 01.11.33
Etichette: Leo Longanesi
Citazione: Leo Longanesi, “Paura pomeridiana,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1280.