Fantasie veneziane (dettagli)
Titolo: Fantasie veneziane
Autore: Diego Valeri
Data: 1933-11-15
Identificatore: 1933_491
Testo:
Fantasie veneziane
La bottega dell'antiquario
L’antiquario, insediato nella sua cattedra vescovile, puntati i gomiti sul leggìo, strette le tempie tra le mani ceree, stava tutto sospeso e fisso su un gran volume in folio: una qualche summa cabalistica, certo. La poca luce della porticina a vetri, ben chiusa, si raccoglieva sul suo cranio di pergamena, imperlato di sudore, lasciando in penombra, nel giro delle pareti, visi evanescenti di nobiluomini e di pallidissime dame, mazzi di loschi fiori oleosi, paesaggi invetriati, lanterne senza fuoco, tricorni senza testa, bautte senza sguardo...
Quieto, quieto, in un angolo, dietro la statua del moro portalampada, io frugavo entro un grosso fascio di carte gialle, arabescate di scritture rossigne, e ogni tanto levavo gli occhi a spiar lo stregone: non avesse a scomparire a un tratto, lui e la sua roba, per qualche invisibile varco, nel mistero degli spazi non euclidei. Ma nella piccola bottega, soffocata dal calor sciroccale e dal tanfo di antiche muffe, tutto era inerte, impassibile, muto.
Scoppiò invece improvviso, da San Giorgio in Isola, il cannone di mezzogiorno, e i vetri della porta e delle bacheche, e i bicchieri di Murano allineati sulle scansie alte, ebbero un sussulto e un tintinno breve. Vibrarono lungamente le corde della viola da gamba, appesa al soffitto.
Il vecchio non si mosse; forse neppure sentì il gran tuono. Il gatto grigio che gli dormiva ai piedi scosse appena il pelo del dorso, sbadigliò senza aprire gli occhi, e si riaddormentò in pace.
Zitto, nel mio cantuccio, io ripresi, sudando, la lettura degli inediti di Apostolo Zeno.
* * *
Passò un’ora, ne passarono due, battute puntualmente, quarto per quarto, dai Mori dell’Orologio, quasi sopra la nostra testa. Il vecchio stava sempre lì, appollaiato sulla sua scranna, piegato in due sopra il librone; il gatto era un mucchio informe di pelo grigio.
Io sentivo ora una strana dolcezza nell’anima e nella carne: pensavo alla mia puerizia malinconica, alla vecchia casa paterna, al mio primo amore, così grande e gentile e infelice. Era come se il sangue mi fuggisse silenziosamente dalle vene, e il flusso mi portasse lontano, chi sa dove.
Quando scoccarono le tre, capii d’improvviso che tutta quella tenerezza era fame; ma ormai non potevo più muovermi, ormai ero preso negli incanti del mago, come una mosca in una tela di ragno. Spingere avanti una gamba, un braccio, tentar di attraversare la zona di penombra dominata da quel tremendo cranio giallo... No, non c’era nemmen da pensarci. Ero diventato anch’io, senza accorgermi, un pezzo antico, un oggetto di bottega. (Ritratto di letterato del principio del secolo XX - scuola veneta).
Quanto tempo passò ancora? Fosse la fame o l’ombra vespertina, a un certo momento cominciai a non veder più nulla, o soltanto quella porticina sulla calle, appannata d’azzurro: di un azzurro di cieli negati, impossibili.
Fu allora che di colpo, come portata da un vento repentino, apparve entro quel rettangolo pallido una donna stupenda, di larghe spalle, fianchi snelli e lunghe gambe, chiara come il sole.
Era una bagnante del Lido? Era Venere eterna? Era la Vita in persona? Le braccia splendevano nude fuor dalla veste sottilissima: semplici, pure, aperte in un gesto infinito, come se, invece di tener dischiusi i battenti della porta, delineassero un orizzonte marino.
Mi gettai su lei, mi appesi al suo collo forte, e presi a baciarla in volto, piangendo e ridendo, furiosamente.
Poi via a precipizio... Senza saper come, mi trovai nella calletta, fui d’un balzo nella Piazza.
La Piazza era un’immensa vasca di tremule luci d’oro, in cui guizzavano meravigliosi pesci di tutti i colori, in forma di belle donne. Mi ci tuffai dentro, proprio nel momento che la banda cittadina attaccava una marcia di festa... Ero salvo.
* * *
Per quella calle non son passato più. Mi faceva paura già prima, così tortuosa e tetra com’è, con quel capitello all’angolo, che porta scolpito un teschio su due tibie incrociate, e, inciso sotto, l’ammonimento: « Dio ti vede ». Ma adesso la paura è molto più grande.
Non vorrei, passando, scorgere attraverso i vetri il vecchio in cattedra, curvo sul suo gran libro; o trovare un buco nero aperto tra casa e casa, là dov’era la bottega, restando ancora sospeso nell’aria un pungente odorino di zolfo.
Il sonno di Orsola
Tulli quei visi immobili, tutti quegli occhi spalancati e fissi nella tenebra delle chiese e delle gallerie di pittura: padreterni e madonne, santi e dèi d’Olimpo, guerrieri e senatori, nobildonne e cortigiane, angeli e bimbi... Le bellissime larve, invisibili, vegliano quant’è lunga la notte, nell’attesa dell’alba che le restituirà alla vita intera, anima e corpo, della fantasia.
E intanto, chi sa che cosa pensano... Chi sa se penano.
La Venere d’oro della Ca’ d’Oro come si consolerà d’essere umiliata e vinta dall’atra notte, lei che, il giorno, splende più del sole? E la piccola Maria che sale, vestita di celeste, la gradinata del tempio, all’Accademia, non avrà paura di trovarsi così sola in mezzo a tutto quel buio, ombra bambina presso le ombre colossali dei sacerdoti barbuti? Ci fosse almeno lì, con lei, il ragazzino della pala Pesaro, dei Frari: con quei suoi occhi seri e sicuri, da uomo, le farebbe certo un po’ di coraggio; potrebbero magari trovare un bel gioco da giocare insieme, senza muoversi dai loro quadri...
Quella che non si turba, neppur quando i muri vacillano al rombo profondo della mezzanotte di San Marco, è la santa principessa Orsola. Dolce come una morta, ella si sta nel suo lettino liscio, segnato appena dalla tenue curva del seno e dell’anca, con la gota posata sulla mano e le palpebre calate sugli occhi che nessuno ha visto mai. Tra la folla tormentata degli insonni, Orsola dorme, chiusa e beata nel suo sogno d’amore angelico.
Una calle
Ci passo quattro volte al giorno; eppure è sempre la calle delle meraviglie.
Vista dal Campo della Chiesa, pare un crepaccio nero, rettilineo, che spacchi in due, per tutta l’altezza, la grande scogliera delle case marmoree, color d’avorio antico. Ma fuori da quel nero pertugio sbucano ad ogni istante nel sole giovinette chiarovestite, impetuose e balenanti come le rondini: e questa è già una meraviglia, la prima.
Entrando nel chiuso, si respira, con l’ombra umida, un miscuglio di odori pesanti. È la bottega del biavarol, che trasuda la grassa dolcezza dei suoi prosciutti stagionati e dei suoi lardi e butirri freschi. Il padrone non l’ho visto mai, perché c’è sempre sulla soglia qualche donnetta in scialle, con l'involto di carta gialla coricato sul braccio, che parla rivolgendosi verso l’interno, e ogni tanto scoppia a ridere, e non si decide ad andarsene.
Fatti tre passi, altro odore: di pane appena sfornato. Attraverso il lustro dei vetri scorgo la fornarina, ritta dietro il banco, chiusa in un camiciotto di bucato, con le maniche rimboccate sulle braccia tondette, bionda, nitida, morbida, impastata di puro fior di farina e leggermente dorata dalla prima cottura.
Poi viene il calzolaio, che sta sempre fuori della porta, con una scarpina in una mano e un pennello, sgocciolante di tintura nera, nell’altra. Porta grosse lenti sotto la sconvolta zazzera bruna, e fissa in volto, a uno a uno, tutti quelli che passano, fischiettando e lanciando frizzi. Chi sa mai quando finirà di tingere quel tacco.
Poi, l’arca di Noè. In una stanzetta buia, appese in lungo e in largo alle pareti, spenzolanti dal soffitto, accatastate negli angoli alla rinfusa, si vedono innumerevoli gabbie e gabbiette di bengalini e di cavie, di canarii e di gatti d’Angora, di verdoni e di conigli, di tortore e di grilli... Una matrona giallognola siede nel centrò, attonita come un idolo, con le mani abbandonate sulle ginocchia e i vasti seni sparsi sul pallone del ventre. "Le gironzolano attorno, in domestica libertà, un can barbone e una gattina soriana. Certe volte le bestie prigioniere s’agitano e tumultuano tutte insieme, cantando, stridendo, gemendo, tubando, miagolando; altre volte, tutte insieme, tacciono, e si tengon così quiete che sembrano impagliate. Un giorno, ricordo, il tumulto diventò tempesta. Era capitato là dentro, chi sa come, un pianino meccanico, il quale, benché malato d’asma e d’intermittenti amnesie, martellava senza posa dei valzer e dei tango, delle marcie patriottiche e delle romanze d’opera. Le bestie saltavano, svolazzavano, gridavano, ridevano, piangevano, ciascuna a suo modo, come in una jungla il dì della grande adunata; solo le cavie e i conigli stavano zitti, continuando a rosicchiare, sospettosi; le foglione di cavolo cappuccio. Ma il giorno dopo l’organino non c’era più, si capisce.
Sfilano alcune porte di case private; ed ecco l’osteria. Nel fondo della caverna, sotto una lampadina gialla, sta seduto il solito vecchietto dalla gran barba bianca, drappeggiato in un’antica prefettizia, col tubino calato sugli occhi. Ha i gomiti sulla tavola, e le mani immerse nei flutti della barba; pensa e beve, beve e pensa. L’ostessa è appostata vicino al finestrone, e volge ogni tanto verso i passanti quella sua grinta di vecchia sbirra. (Ma il vino dev’esser buono, perché verso sera gli operai si fermano volentieri a bere l’ombra dalla siora Zanze). Penso alla buon’anima del suo uomo che morì l’anno scorso, e fu in quell’occasione onorato da un’epigrafe memoranda: « Chiuso per la morte del marito della padrona ».
Alla fine, una di fronte all’altra, ci son le botteghe del fabbro e della stiratrice. Quella tutta nera, questa tutta bianca. Da una parte, diavoli membruti che picchiano col martello su ferri roventi, tra nuvole di vapori rossastri; dall’altra, diafane angioletto che agitano candide bende stillanti d’amido, e canticchiano le canzonette imparate al cinematografo.
La calle sbocca in un ampio golfo di sole: l’altro Campo, dell’altra Chiesa. Là di faccia c’è il fruttivendolo che espone la sua colorita mercanzia ai piedi del campanile, in bell’ordine, sotto una tenda arancione che pare una vela.
Diego Valeri.
Collezione: Diorama 15.11.33
Etichette: Diego Valeri
Citazione: Diego Valeri, “Fantasie veneziane,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1301.