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Titolo: Domenico, ovvero evoluzione dello scrittore

Autore: Leo Longanesi

Data: 1934-01-03

Identificatore: 1934_54

Testo: Domenico, ovvero
evoluzione dello scrittore
Mi sdraierò all’ombra dei tuoi verdi gloriosi, bionda estate.
Nell’asciutto canto delle cicale lo sciacquio dei fossi veglierà il mio sonno, vasto come le tue ore, o immobile stagione.
Le tue sere si adagiano sulla terra con cieli sereni, e nella distesa pace delle tue ombre notturne appaiono le lucciole occhi di siepi.
Questa lirica di Domenico apparve nella nuova grande rivista letteraria. Fu un « vero successo »; per alcuni giorni nei cenacoli più celebri della capitale non si parlò d’altro. Ma a pochi giorni di distanza da quel suffragio di congratulazioni il più noto critico, in un importante quotidiano del Nord, mostrò il proprio dissenso dal « vecchio formalismo poetico » del nostro Domenico. « Bisogna superare queste cadenze accademiche — scriveva —, perdere questo lirismo evanescente che trascina il poeta in un verbalismo ahimè troppo... ».
« Forse il critico ha ragione », pensò Domenico, appena ebbe letto l’articolo, e la parola verbalismo non se la scordò più. Se faceva tanto di scrivere un solo verso, ecco che la voce del. critico lo raggiungeva come un’eco per ripetergli: « Verbalismo! ».
Incapace perciò di « ritrovare se stesso » e di sfuggire a una « critica interiore », decise di rinnovare sé e la propria arte. La fatica non fu ardua, come i più possono credere; in poche settimane egli si rinnovò da capo a fondo, fino a « vedere il mondo con occhi nuovi ». E un giovedì sera di novembre inviò alla grande rivista letteraria questa prima lirica della sua seconda maniera: Imprevisto spazio di un fuggente clima, mi perdo in te, senza volerlo, come in un ricordo, e intanto passano gli anni.
La nuova lirica piacque, ma un secondo critico notò che Domenico « perduti i vecchi schemi, non riusciva tuttavia a liberarsi dalla melanconica inclinazione a trovare solo nel rimpianto estro poetico. La poesia non può e non deve essere il lamento di un esteta: occorre perdersi nella vita, sentire le forti passioni umane ed esprimerle col canto. Del resto, aggiungeva il critico, non vi ha eccessivo bisogno di poesia oggi; quel che più conta è narrare, narrare i tormenti che ci agitano, narrarli fors’anche nella forma più cruda, ma narrarli. Quel che più conta è avere un tormento da esprimere; e ci sembra, all’opposto, che il poeta Domenico non abbia altro turbamento che quello di riuscire gradito al mondo delie lettere. Grave colpa, questa ».
Turbato dalle parole del critico, Domenico per vari giorni cadde in quegli strani abbandoni che si è soliti chiamare « crisi interiori », « tormenti dell’anima » o « tempeste dell’io ». E girando senza mèta per le vie della città, si chiedeva a volte: « Domenico, sei ben certo di te stesso? Non si nasconde forse in te, nel tuo subcosciente, una diversa tendenza letteraria, un’opposta personalità? ».
« Sì — rispondeva a se stesso —, sì, ho un mondo dentro di me ancora da esprimere, lo sento come in un di là, profondo ».
Per giorni e giorni egli « cercò se stesso » come un avversario da uccidere e una donna da amare. Stette chiuso nella sua camera da letto interi pomeriggi a rileggere i vecchi scritti; durante una penosa settimana divorò vite, epistolari e diari di uomini illustri. Dostoievski lo sedusse al punto da lasciarsi crescere la barba e Zola, perfino, un tempo tanto biasimato e deriso, gli piacque. Dopo un’intera notte, trascorsa sulla vita di Gogol, bruciò i propri manoscritti sul fornello a gas della cucina, versando qualche pallida lacrima. Poi, per essere ben certo di non commettere errori, volle ritornare ai classici e rilesse Petrarca e Leopardi. E non si meravigliò affatto di sentirli lontani e perduti.
« La loro voce più non ci raggiunge. In loro non v’è dramma », diceva tra sé, felice di sentirsi libero da quei suoi vecchi maestri, cari un tempo.
Rilesse Baudelaire e Rimbaud, e non ne restò sedotto come un anno addietro. « L’uno e l’altro, in fondo, non sentivano le profonde passioni umane; vivevano di pure e astratte fantasie individuali », si diceva Domenico.
Trascorsa cosi la crisi, dimenticate le funeste dolcezze degli abbandoni lirici, si rivolse a guardare la collettività per trarne i grandi temi, le potenti trame, i forti motivi della nuova prosa fatta di fatti e non di parole.
Ma più si guardava d’intorno più la vena veniva a mancargli, e se pure un chiaro tema gli si affacciava alla mente, nell’attimo di stenderlo sulla carta diveniva intricato e oscuro.
« Sono ancora incerto nello stile, nella forma — diceva a se stesso. — Non ho una maniera per esprimermi. Ma una maniera — si rispondeva — è pur sempre una rettorica, il he nuoce allo scrittore-uomo ».
Così il problema di scrivere, di esprimersi, fu per lui quanto mai arduo è penoso. Volle allora confidarsi a un vecchio critico iniziato ai misteri dei drammi dell’io, spiegargli queste nuove difficoltà del linguaggio, dirgli che il problema della forma era ancora un ostacolo, dopo aver ben superato una crisi.
E il critico così gli rispose: « Buon segno questo, o amico. Tu hai superato i vizi, la rettorica della forma, ed ora sei un primitivo di te stesso. Segui il battere dei concetti nella tua mente ed esprimili senza pensare ad altro che al dirli ».
Allora Domenico, primitivo di se stesso, cercò di esprimersi nella maniera più sciatta pur di essere espressivo. Scrisse cosi racconti e novelle che riscossero opposti giudizi. Ma per poterne dare un chiaro giudizio occorre prima leggerli; farne un riassunto non basta. Quel che si può dire, tutt’al più, è che la parola indarno e il ché con l’accento, invece di perché, scomparvero dalla sua prosa ormai scarna e rapida.
Per descrivere un paesaggio non perdeva più di una riga, solo se il paesaggio era invernale, perché se la trama descritta si svolgeva per caso durante l’estate, allora non si parlava affatto né di clima né di vegetazione né d’altro che richiamasse il pensiero alla natura. Solo l’inverno, il rigido inverno, il crudo inverno, meritava l’attenzione di Domenico.
L’estate è l’allegra stagione della letteratura classica, « formalista »: i mesi caldi e soleggiati ormai non interessano gran che; per reggere al contenuto di una forte vicenda occorrono i mesi invernali, foschi, umidi e fangosi, i mesi che nascondono cento drammi: freddo neve e gelo, cioè pene, privazioni, sofferenze, camere senza stufa, giovani partorienti in una soffitta senza vetri, lugubri interni e desolati viali, operai coi geloni, notti fonde, rotaie gelide, città sepolte nel mistero e quel che c’è d’altro ancora dentro l’inverno. E se non basta, l’inverno richiama alla mente la Russia, cioè Dostoievski e il Piano Quinquennale e la vita collettiva e il dramma delle nuove generazioni e la transiberiana e quel vario romanticismo che si accende appena appaiono le quattro grandi lettere sovietiche, U.R.S.S.
Gli scritti di Domenico non si possono raccontare come un fatto di cronaca letto nel giornale, perché quegli scritti nascondono un problema centrale e chi saprebbe spiegare queste cose?
L’ultimo suo racconto, se ben ricordo, finiva cosi: «... In questo isolamento, in questo silenzio, in questo volontario distacco dalla vita borghese egli sentì una voce ripetergli: Ora sei un Uomo ».
« Ho una nuova etica », dichiara oggi Domenico agli amici.
Certamente: ognuno si crea una morale e se la coltiva. Ma la pratica, la pratica raramente muta. Domenico va dallo stesso sarto, ama la stessa signora straniera con la quale prende il tè ogni giorno nella stessa garçonnière, viaggia, fa visita, l’estate al Lido di Roma indossa un costume Jantzen e se il caso lo aiuta vi fa una piccola porcheria. Non perde un’ora del suo tempo né un’occasione per mettersi avanti: nulla è mutato. Quel che prima non faceva è scrivere gli articoli a màcchina. Ma ciò non ha mólta importanza.
Leo Longanesi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 03.01.34

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Citazione: Leo Longanesi, “Domenico,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1419.