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Titolo: Gente su una panchina

Autore: Ugo Betti

Data: 1931-09-09

Identificatore: 142

Testo: Gente su una panchina

Entra e siede in disparte con la faccia preoccupata, come se si fosse appena staccato da qualche affare importante. Anche nell' ordinare il primo bicchierino prende un’aria distratta, per far capire che ha la testa a tutt’altro. Invece gira intorno, di sottecchi, guardatine timorose, per vedere se qualcuno lo osserva, perché non si sente tranquillo. E perché poi? Questa è bella! Che c’è d’aver paura? Che cos’è un bicchierino? Potrebbe anche succedere che fra poco, vuotato questo, lui che fa? Paga, saluta, e buona sera. Ci crede poco, però, che le cose debbano andare in codesto modo. Insomma forse è questo che lo tiene agitato: il non aver deciso se deve ubriacarsi oppure no.

— Non ci pensate, zio! Fatevi una ragione!

E’ il padrone del caffè, che si volta ogni tanto col suo risolino, prendendosi delle confidenze che al vecchio non garbano affatto, tanto più che c’è sempre qualche maleducato, dai tavoli, che pure si volta a canzonare, ammiccando. Per darsi un contegno, comanda bruscamente un altro bicchierino.

— Che mondaccio! — rimugina fra sé sorseggiando. Eccolo qua che cosa vuol dire esser vecchi: ogni minchione fa il superiore, vi tratta con questo tono di burla. Cerca di richiamarsi alla memoria tutti i torti patiti da quando è in pensione e da quando è rimasto vedovo: il caffè, la nuora glielo dà quasi senza zucchero; l’hanno messo a dormire si può dire in un sottoscala, fra le casse vecchie; di quei quattro soldi della pensione, che gli lasciano in mano? Una lira al giorno, che gli deve bastare anche pel barbiere; che porta ai piedi? Ecco qua: le scarpe vecchie del figlio. Enumerando tutte queste cattiverie, però, il vecchio non è troppo amareggiato; vuole soltanto convincersi di questo: che non sarà poi un gran male se comanderà un terzo bicchierino. Per riguardo di chi dovrebbe trattenersi? Peggio per loro.

Improvvisamente s’accorge che non è il caso di pigliarsela troppo. Ne ha la sensazione al terzo bicchierino, di colpo, fermando l’occhio sulle grandi scintille verdi e gialle che si accendono al taglio degli specchi e che gli svegliano dentro, chissà perché, un senso di conforto, un ricordo confuso di belle giornate e di feste. Il suo volto si rischiara, i suoi occhi cominciano a farsi piccoli e a brillare di furberia: all’improvviso si mette a ridere fra sé, ammiccando, come se seguisse un’idea proprio comica.

— Allegro zio! Ora si che ci siamo!

Il caffettiere e gli altri s’accostano, con l’intenzione di divertirsi un po’. Povera gente! Stupidi! Il vecchio li guarda con occhietti canzonatori, buttando là ogni tanto delle risposte che a lui sembrano straordinariamente lepide, azzeccate, ed anche pungenti, tanto che non può trattenersi, gli viene ogni volta un groppo di riso che lo fa tossire con le lacrime agli occhi.

— Eh, eh! Sicuro: chi se ne accorge e chi no!

Ride, perché costoro credono d’essere furbi, mentre invece che sono? Sono poveri stupidi, che non se ne accorgono di come stanno le cose: non capiscono. Ecco il punto.

Ecco il punto, sicuro. Seguita a pensarci anche fuori, mentre barcolla pel viale, dove il vento fa dondolare le lampade muovendo l’ombra dei rami sotto i suoi piedi. Mettere in chiaro come stanno le cose, ecco il punto. Gli sembra che queste parole, a pensarci bene, abbiano un significato molto profondo e soprattutto amaro. Scuote la testa: s’accorge che tutti i suoi pensieri sono diventati scuri, si sente triste fino alle lacrime. Forse deriva dal fatto che ora, trovandosi in strada, ha la sensazione che bisognerà pure andare in qualche posto, cioè tornare a casa; e questo significa che verrà ad aprirgli la nuora con quegli occhi duri; e lui ha il sospetto d’avere addosso una sbornia coi fiocchi.

— Immondizie, sporcizie: ecco quello che siete!

Sfoga il suo malumore con dei ragazzi che hanno cominciato a seguirlo e gli dànno la baia, ma senza troppo schiamazzo, fermandosi anche loro, quando si ferma lui, proprio a due passi, e domandandogli quasi seriamente se è vero che s’è orinato addosso. Con le spalle appoggiate al muro li maledice gesticolando, rivolge loro minaccie terribili, senza che quelli si scompongano affatto. Si ripromette di vederli in galera; ce l’ha specialmente con quelle che li hanno portati nel ventre: donnaccie.

In realtà quel che eccita la sua disperazione non è la ragazzaglia che gli sta intorno, e nemmeno le donne, che empiono la terra di figli: è il complesso, è il mondo, che gli sembra una cosa brutta, vigliacca, orribile. La sua ombra, ora sull’asfalto, lunghissima, ora sui muri, piegata in due, gli appare e gli riappare, con gesti enormi, slogati, angosciosi. Tutto il male patito in tanti anni gli ritorna su, gli riempie l’anima e la bocca d'un’amarezza mortale.

Quante ingiustizie, quanto dibattersi inutile, quante sofferenze, quante atrocità! E non c’è niente da fare, niente, niente: bisognerà morire; è proprio troppo. Con le guance ed anche i baffi bagnati di lacrime, si morde le dita, gualcisce il cappello, dichiarando che vuole buttarlo a terra, pestarlo. S’avvede, in quella, che i ragazzi hanno fatto come uno stormo di passeri: c’è un uomo che sta assestando ai meno svelti, senza parlare, rabbiosi scappellotti. Suo figlio! La sbornia gli passa per metà.

Scuro in volto e sempre senza parlare, il figlio lo porta con sé, tenendolo ruvidamente pel braccio. Forse lo porterà, anche questa volta, ad una panca dei giardinetti, per farlo un po’ riassestare e riavere, affinché a casa la donna non lo veda in questo stato e non riattacchi la solita nenia con quella voce agra che lima i nervi.

Il vecchietto gli trotterella accanto facendo i passi più corti, come un bambino; quando hanno una lampada dietro si vedono le due ombre, che un tempo erano uguali. Adesso una è più piccola. Ha cominciato a piagnucolare, il vecchietto, ad ansare forte apposta, sbirciando di tanto in tanto quella faccia pensierosa, vicino a sé. Principia a dire che la vita è amara; dopo tanto lavorare e penare tutti si fanno in là: nemmeno il nipotino, gli lasciano toccare, pel motivo che i vecchi sono sporchi. Gli fa male il cuore davvero, benché nessuno lo creda; non può più respirare; fra un anno, anzi sei mesi, non avranno più da rimproverarlo, mai più. Svegliandosi la notte pensa che è solo, si sente stanco, ecco, stanco.

Forse tutto questo è anche vero; ma ora il vecchio ne parla solo perché gli fa un po’ soggezione, il figliuolo, che seguita a tacere; vorrebbe che cominciasse a inquietarsi, a sgridare. Sentendo, invece, che la mano del figlio s’è posata sopra la sua, si volta con un po’ d’apprensione. Il figlio gli domanda se ha freddo, con dolcezza.

— No, no — fa il padre ritirando la mano, e guardandosela, come preoccupato da qualche cosa che sente nella voce del figlio. Da quando ha cessato di lavorare, sembra che la sua mano, anche lei, si sia fatta piccola piccola, coperta fino a metà dalla manica troppo lunga, con qualche cosa d’infantile, di lugubre. Torna a voltarsi al ragazzo, vorrebbe domandargli se ha qualche dispiacere, ma non osa. Come per non farsi vedere in faccia, il figlio ha ripreso a guardare laggiù, verso i lumi delle colline, donde giungono i fischi fiochi dei treni. Avrà lavorato tutto il giorno, forse è stanco lui pure. Ha già i capelli grigi.

Ora anche il padre guarda lontano, ai lumi delle colline. Ha cominciato a spiegare, con un po’ d’affanno, che non è mica poi vero, quello che ha detto prima; come salute, ad esempio, non può lagnarsi di certo; qualche volta si è stufi, non si ha più voglia di tirare avanti; e invece no, non è vero, arriva il giorno che si è magari felici; contenti, insomma. Il figlio sta a sentirlo a testa bassa. Stanno sulla panchina, vicini, uguali; il vento fa passare davanti ai loro piedi foglie che frusciano.

Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 09.09.31

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Citazione: Ugo Betti, “Gente su una panchina,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/142.