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Titolo: Libri della settimana

Autore: non firmato (Lorenzo Gigli)

Data: 1934-01-10

Identificatore: 1934_69

Testo: Libri della settimana
Raffaello Barbiera
L’ultimo libro di Raffaello Barbiera, uscito pochi giorni avanti la morte di questo fecondo animatore di ricordi, è un omaggio alla sua Venezia: Volo di memorie veneziane. Ce l’aveva annunciato egli stesso la settimana di Natale con una cartolina fitta di quella sua minuta e aristocratica scrittura con la quale, in tanti anni di attività letteraria, vergò migliaia di pagine sempre informate e dignitosissime; e alcuni dei suoi libri (che saranno almeno una quarantina) continuano a godere nel pubblico d'una meritata fortuna e onorano il ricercatore e lo studioso: tali, ad esempio, Il salotto della Contessa Maffei, La principessa Beigioioso, Passioni del Risorgimento e quel dramma sui Fratelli Bandiera che egli scrisse in collaborazione con Carlo Bertolazzi e che varrebbe la pena d’esumare, magari alla radio.
Il Volo di memorie veneziane (ed Baldini e Castoldi, Milano 1934. L. 12) è, dicevamo, l'estremo omaggio del Barbiera a quella che il Goethe definiva « città di castori » e che oggi è ritornata la città di nuove opere grandiose e fu in ogni tempo benemerita della civiltà occidentale. Il Barbiera lega appunto, in una serie di rievocazioni dense e vivaci, gli ultimi giorni della Serenissima alle manifestazioni della vita veneziana d’oggi rinnovata sotto il segno del Littorio, ricongiunge il tempestoso 1789 al mussoliniano anno XII, il precipizio della repubblica millenaria al tempo novecentesco, i lavori della diga costruita nel 1784 dall'idraulico Zendrini nei litorali di Pellesirina e di Sottomarina ai lavori del ponte sulla Laguna. Nel primo capitolo è ancora presente lo spirito di Carlo Goldoni, nell'ultimo si incide il profilo imperiale della nuova Italia finalmente e veramente una.
Il tramonto della Serenissima non fu privo di dignità. Ne salvò le tradizioni quel provveditore Giustinian che a Treviso tenne testa al Buonaparte il quale, ammirandone la lealtà, gli promise salvi i beni mentre avrebbe confiscati quelli degli altri patrizi. E il Giustinian: « Generale della Repubblica Francese! Ricuso il dono. Non sono così vile da riceverlo a prezzo della mia patria! ». È il fatale 12 maggio 1797. L’ultimo doge, Lodovico Manin, segna il patto di resa all'invasore. La gloria di San Marco è finita. Passa mezzo secolo, e un altro Manin, non patrizio, solleva Venezia contro l'Austria e ne riscatta il nome.
Qui si inserisce uno dei capitoli più commoventi del libro, Venezia al domani del martirio nel biennio 1849-50, ricco di episodi e di notizie curiosi. Anche merita d’essere indicato all'attenzione del lettore il capitolo sull’incontro in Venezia italiana di Francesco Giuseppe con Vittorio Emanuele II; e poi quelli su Arrigo Boito garibaldino, su Venezia nel ’66, sul ritorno del resti di Daniele Manin; e, infine, i capìtoli sul martirio di Venezia nei tre anni e mezzo della guerra mondiale scritti su ricordi personali e su testimonianze altrui, degno tributo alla parte assunta nel quadro del grande conflitto dalla città custode di tante glorie e alimentatrice di tante virtù. Così il congedo di Raffaello Barbiera reca l’impronta di quello che fu l'amore di tutta la sua esistenza e ne contraddistinse l’operosità di scrittore, alla cui memoria la Gazzetta del Popolo, che lo ebbe per molli anni collaboratore pregiato, s inchina.
Idee di Arno Borghi
Arno Borghi è un nome famigliare ai lettori della Gazzetta. Per molti mesi essi hanno incontrato sulle colonne della terza pagina gli sfoghi di questo « cittadino che protesta » in nome dello spirito contro il materialismo della civiltà borghese condannata dalle stesse sue colpe al più inglorioso dei tramonti. In tanto decadimento di tutti i valori ideali, in questo mondo disorientato e avvilito, stanco e deluso, Arno Borghi si appella a Roma, vede nella universalità, imperiale e cattolica di Roma l’oasi di salvezza per gli uomini del ventesimo secolo, è contento di viver re sotto il cielo italiano, unico limpido, nel momento in cui per virtù del genio politico mussoliniano l'Italia riprende il suo posto di maestra di vita. Arno Borghi, nome carnpagnuolo toscanissimo, segnacolo di fedeltà all'ambiente naturale, è Ardengo Soffici, è il depositario della sue idee e delle sue speranze, l’interprete delle sue passioni. E codesto Taccuino di Arno Borghi che ora vde la luce nelle edizioni Vallecchi (Firenze, 1934 - L. 10) è, e non soltanto in senso esteriore e schematico, la continuazione di quei « taccuini », dal Giornale di bordo in poi, ai quali Ardengo Soffici ha affidato prima e dopo la guerra i suoi sentimenti, le sue trasfigurazioni, la sua filosofìa della storia e dell’arte.
Qualche settimana fa egli presentava al pubblico, sempre nelle edizioni Vallecchi, la traduzione d'un libro del critico Waldemar George, amico dell'Italia d’oggi e degli artisti italiani: Profitti e perdite dell’arte contemporanea. Nella lettera-prefazione del George si leggono queste parole che equivalgono a un ritratto-sintesi del Soffici: « La sua opera di pittore e di critico militante che non ha aspettato la crisi dello spirito contemporaneo per assumere la difesa dell’umanesimo latino, dimostra la sua volontà di restituire il loro prestigio ai valori spirituali ed ai valori umani».
Abbiamo citato la lettera del George appunto perchè rischiara come meglio non si potrebbe la posizione della generazione sofficiana sia nei riguardi dell’avanguardismo d’un tempo e di tutte le appassionanti avventure della giovinezza (dice Arno: « Non ho in vita mia letto mai un libro d'avventure: ne ho avute assai. E mi pare molto meglio ») sia nei riguardi dell’antimodernismo attuale e del ritorno alla tradizione intesa in senso anticonservatorista. Avverte ancora il George : « Noi amiamo la cultura e viviamo la storia; ma siamo degli uomini semplici e diretti. L'umanista, quale noi lo concepiamo, non è un topo di biblioteca: l’umanesimo non è una lingua morta: l'umanesimo è un’iniziativa ». Come ieri si batteva contro il freddo accademismo e le menzogne convenzionali, avvertendo il fatale maturare d’una crisi storica e morale i cui segni preannunziatori erano nell'aria, così oggi il Soffici si batte contro le degenerazioni d’un modernismo che è diventato a sua volta un'accademia e una menzogna e che accompagna sinistramente il funerale della civiltà rumante. Si possono discutere i termini assoluti della sua polemica, riconoscete nel suo discorso più d'un brillante paradosso e, sempre, il motore passione la cui esuberanza è pari ad ogni modo alla sua nobiltà; ma non si può non ammirare la fedeltà di questo artista e scrittore, oggi come ieri, agli ideali della sua severa coscienza servili in ogni momento con esemplare disinteresse, con commovente fervore.
La difesa della civiltà italiana (« quella difendo perchè essa vive in me ed io in lei»), la difesa del cattolicesimo (« il solo possibile modo d’essere spirituale italiano è il cattolico ») sono i due perni della battaglia sofflciana contro la civiltà tramontante e della polemica artistica: condotte l’una e l'altra con quella felice scrittura e con quella dignità semplice e chiara di stile che fanno dei libri del Soffici, anche per questo verso, altrettanti documenti di schietta italianità.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.01.34

Citazione: non firmato (Lorenzo Gigli), “Libri della settimana,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1434.