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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1934-02-28

Identificatore: 1934_122

Testo: Calcomanie
Il ventino
Dal vicino di treno, che vuol defraudarmi del paesaggio, basta di solito a scamparmi il primo verso dell' Iliade, spiccato in tutte sillabe e chiarito dal mio migliore sorriso. Punto, quello si scosta un po’ sul sedile, tocca il cappello e non mi osserva più che di sfuggita. In tranvai, mi metto al sicuro presso il guidatore: gente che campa all’osso non parla che per dire.
Questo è un omino risecchito e cespuglioso (baffi a inaffiatoio e sopraccigli a grondaia); unicamente assorbito, a vederlo, dalla manovra e dalla strada; da cui pure udii uscire, il giorno della nostra conoscenza, una parola che più inattesa per me non sarebbe uscita da un neonato una voce di basso.
Sulla piattaforma spirava quel giorno aria di cospirazione. Colleghi sussurravano d’un capoccia, con occhiate diffidenti e coperte allusioni; dalle quali pigliava corpo la figura d’un aguzzino cui la miseria dei dipendenti, taglieggiata di multe e di ritenute, manteneva la pinguedine e la boria. Perché una cosa sia vera basta che sia creduta; e le corte parole e più i silenzi di gente presa alla gola addensavano una nube d’odio irrespirabile che non si vedeva quale parafulmine avrebbe potuto scaricare.
Quando l’omino che non aveva messo bocca nel discorso né mostrato di udirlo, senza distogliere l’occhio dalla sua bisogna, disse appena, alludendo al danaro maltolto:
« Potesse goderselo in tante operazioni ».
Ognuno considerò davanti a sé quella parola e senti il suo odio acquietarsi in essa come torrente in lago. In quella, tutti tacquero, sazi.
Ora che il tranvai si è pressoché vuotato, il bigliettario può dedicarsi al ricupero del ventino perduto dal viaggiatore ed andato ad allogarsi in una commessura. Dalla partenza vi si prova e siamo prossimi al capolinea quando lo ripesca e lo mostra trionfante al guidatore. Il guidatore non dà segno d’intesa. Alla prima edicola il bigliettario balza dal tranvai e torna su spiegando un giornale.
Il guidatore mi si volge d’un quarto e chiosa per sé: « L’aveva appena trovato e l’ha già perduto ».
Il Lido d’Ascona è una trappola pel sole. La sua forma elittica abolisce al possibile l’ombra e riduce cosi smilzo il corpo di fabbrica che la luce lo permea.
Verande e bagni di sole occupano la facciata. Veranda è il pianterreno; e l’avancorpo del ristorante che ne sporge è una veranda che raggiunge il secondo piano. Terrazza è tutto il tetto e quattro terrazze si mangiano, si direbbe interamente, i quattro piani.
Le parti necessarie all’abitazione pare che manchino: scompaiono sotto lo scialo dell’inutile.
A questo modo il più grande spazio è fatto alla gioia. (Penso alle nostre case dove l’unica evasione dal necessario è qualche volta il poggiolo: un poggiolo con un po’ di verde in vaso. Non dico che non basti anche questo).
All’interno, l’occhio non deve quasi incontrare ostacolo. Il sedentario della sala da fumo basta abbassi il giornale per godersi i tuffi, laggiù, delle bagnanti dal trampolino; che scosti il giornale per sorvegliare la signora che pranza al piano di sotto.
Chi si sveglia di notte in queste stanze da letto si vede sul capo, in ogni stagione, il Carro e la Via Lattea: come accade d’estate al pastore all’addiaccio. Le cabine del lift in movimento devono sembrare, in tanta trasparenza, bolle d’aria che aggallino in un bicchiere di cristallo.
Donna in mostra
La dama deve avere in questo punto ricevuto la più lieta novella della sua vita, tanto lume il suo volto sprigiona. (Discorre, infatti. Chi, senza quésto indizio, si accorgerebbe della sua interlocutrice? Essa la toglie alla vista. In pratica, la dama è sola).
Nella illuminazione ve’ come spicca, sui carbonchi degli occhi, l’arco delle sopracciglia esigue!
Splendore che, ecco, si appanna: la dama piega in ascolto. Si corruccia la bella fronte; frequente cala la frangia dei cigli sull’occhio preoccupato (lobo rosa dell’orecchia! nuca affollata di riccioli! ).
Non più che un’ombra di nuvola. Radiosa ella n’esce. « Là, là! ». A schermirsi dalla cosa udita, avanza — e pare lo porga — il fiore scintillante della mano. No, questo non può credere. L’ilarità la guadagna, spumante il collo della bottiglia. Scopre la gola; si apre, melagrana, in un riso di avoriolina.
Altro che grassetto corsivo o maiuscolo! Che sono, a petto di questa mimica, gli espedienti tipografici per variare il tono, appoggiare sulla parola o sorvolarla? Squallore e impotenza della punteggiatura davanti alla malizia di queste reticenze, a questi esclamativi illuminanti come razzi!
Si fa presto a capire che la dama è in vetrina: come in pubblico accade a donna conscia di sé.
Il discorrere allora fa parte del contegno. La mimica è il suo significato. Ciò che la donna può dire è riscattato dall’arte. Non conta in sé più delle parole nello spartito.
Dagli stati d’animo pei quali con tanta maestria trascorre, essa trae, come accordi da tasti, effetti vantaggiosi alla sua bellezza, mettendone in mostra ora questa ora quella risorsa.
A questo modo si muove e si atteggia il manichino per porre in luce la squisitezza d’un abito.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 28.02.34

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1487.