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Titolo: La prima di "Più che l’amore"

Autore: non firmato (Lorenzo Gigli)

Data: 1934-03-07

Identificatore: 1934_133

Testo: IL FATTO DI
CRONACA NELLA STORIA LETTERARIA
La prima di “Più che l’amore"
« Nessuna delle mie opere fu mai tanto vituperata, e nessuna mi sembra più nobile di questa » scrisse Gabriele d’Annunzio nel discorso polemico a Vincenzo Morello che va innanzi alla tragedia Più che l'amore data alle stampe da Treves nei primi mesi del 1907. « Il giorno della mia tragedia è un giorno di trasfigurazione. Meglio forse avrei potuto chiamarlo: un giorno d’invenzione eroica ». La sua difesa, la sua necessità e la sua bellezza sono altamente proclamate nella citata prefazione dove abbondano le invettive famose, da quella contro i « catoncelli stercorari » a quelle dei « poveracci che si sfamano con gli avanzi dei miei conviti » e dei « ladruncoli che trafugano i frutti caduti dagli alberi dei miei giardini ».
La reazione è proporzionata al clamore della caduta. La tragedia, rappresentata al Costanzi di Roma la sera del 29 ottobre 1906, precipitò sotto la più violenta delle tempeste.
« Pareva — ricorda Vincenzo Morello — che il pubblico volesse fare giustizia sommaria dell’autore oltre che dell’opera d’arte: tale e tanta era la violenza della protesta e la sconvenienza delle forme insurrezionali. Maggiore violenza e maggiore sconvenienza, se possibile, il giorno dopo nella critica... ». La tragedia era stata scritta nella villa dello scultore Origo a Viareggio. La preparazione era stata lunga, accuratissima, la curiosità, alimentata dalle indiscrezioni, era addirittura spasmodica, tanto più che s’era fatta circolare la voce che questa volta il poeta abruzzese avesse voluto fare l’apoteosi del delitto contro tutte le leggi morali. Di preciso però nulla si sapeva perchè D’Annunzio aveva fatto chiudere le porte del Costanzi ad ogni indiscreto e aveva imposto il più assoluto segreto agli interpreti. Che erano: Ermete Zucconi nella parte di Corrado Brando, Ciro Galvani in quella di Virginio Vesta, Ines Cristina (Maria Vesta), Amilcare Morelli (Marco Dalio), Annibaie Ninchi (Giovanni Conti), Giovanni Rissone (Rudu).
Ma veniamo alla cronaca della serata, come la ricostruisce Mario Corsi nel settimo capitolo del suo volume sulle « Prime rappresentazioni dannunziane» (1928).
La sala era rigurgitante in ogni ordine di posti: esaurita la platea, straboccanti le gallerie. L’aria era satura di elettricità, e fin dalla lunga scena del primo atto tra Corrado Brando e Virginio Vesta cominciarono le manifestazioni ostili: anche la scena successiva (arrivo e confessione di Maria Vesta) non riuscì con la sua innegabile forza drammatica a prendere il pubblico che accolse la fine dell’atto con clamorose disapprovazioni; una minoranza reagì, chiamò due volte gli interpreti alla ribalta, volle anche il poeta, ma questi aveva già abbandonato il teatro.
La prima scena del secondo episodio (in cui Maria Vesta fa a Corrado la rivelazione della sua maternità e intuisce che sta per perderlo) parve risollevare le sorti della tragedia e fu salutata da lunghi applausi; ma poi la tempesta riprese e precipitò. La scena tra Corrado e Virginio, in cui Corrado rivela all’amico d’aver assassinato lo strozzino per derubarlo e poter così realizzare la sua impresa, venne accolta con tali proteste da non lasciar quasi più comprendere le parole. Il restò si svolse in mezzo a clamori, risa, lazzi, che sommersero l’impressionante finale. Le dimostrazioni continuarono, a sipario calato, nella sala; continuarono nella strada. Si gridava: « Arrestate l’autore! ». Vi furono colluttazioni. E l’indomani le cronache dei giornali eran piene degli incidenti della tempestosa serata, e i resoconti dèi critici di tono nettamente ostile. Severo sopra tutti. Domenico Oliva che scriveva: « È la retorica che qui guasta tutto, ed è nello stesso tempo quello che c’è di meglio: stupenda retorica, fatta di parole scelte con arte antica, di periodi armoniosi al pari di musiche, d’immagini prodigate con lusso principesco, ma più bella è, più palesa il vuoto dei caratteri, dell’azione, di tutta l’opera. Si tratta d’un seguito di frasi, di motivi lirici e di racconti: ma nulla qui converge; ogni cosa è anzi divergente: l’amore di Maria sta a sè, il delitto di Corrado sta a sè, fa casa a parte la storia della famiglia Vesta che ho potuto saltare di piè pari; sono tante declamazioni isolate, sono tante voci senza rispondenza, declamazioni e voci che non possono costituire un dramma: il n’y a pas de pièce; mi duole servirmi di una frase di Francisque Sarcey, ma altra più conclusiva e più pittoresca non so trovare ». Un altro critico, Stanis Manca, attribuiva gran parte della responsabilità dell’insuccesso alla recitazione enfatica, frammentaria e spesso mutevole degli attori, non risparmiando lo stesso Zacconi.
Unica voce discorde nel coro avverso fu quella di Vincenzo Morello, il quale scrisse nella Tribuna il famoso articolo: « Io difendo Corrado Brando », nel quale cercava di esaminare serenamente tanto l’opera quanto il contegno del pubblico. « Il fatto è questo — scriveva il Morello. — Corrado Brando, uomo di grande energia, capace di tutti gli atti eroici e le più nobili avventure, non trovando nel suo paese i mezzi opportuni per compiere l’impresa che fiammeggia nel fondo del suo sogno di esploratore, una sera in cui il suo sogno più lo turba e lo sconvolge uccide un biscazziere carico di denaro barato e lo deruba della somma che egli crede necessaria a compiere la sua impresa. Come e perchè l’energia di quest’uomo capace di produrre un’azione gloriosa produce invece un delitto? Ecco il problema psicologico, o, se vi piace meglio, patologico, e morale, che è la base della tragedia di Gabriele d’Annunzio. Il pubblico, nel secondo episodio, quando Corrado Brando tenta di spiegare a se stesso ed agli altri le ragioni del suo delitto, insorgo con urli e grida come ferito nella radice dei suoi principi morali, senza pensare che, mentre il colpevole racconta, gli agenti della pubblica sicurezza sono già alla porta, chiamati dall’autore per assicurare alla giustizia colui che ha infranta la legge della società costituita. Domando dunque: perchè insorgere e protestare? È la prima volta che un delinquente tenta sulla scena di esporre i suoi principi, la sua filosofia, che sappiamo benissimo — e non c’è bisogno sia dimostrato a forza di urli! — non sono i principi e la filosofia del pubblico che assiste alla rappresentazione? ».
Il Morello proseguiva dimostrando che Corrado Brando, come delinquente, è profondamente studiato e organicamente ben costruito; e concludeva: « Ma a che parlare di questo? Di questo parleremo quando il pubblico si sarà convinto del suo inganno o del suo errore, e con occhio sereno potrà vedere e con libera mente apprezzare tutte le bellezze di questa vera tragedia moderna che Gabriele d’Annunzio gli ha largito, munificente signore dell’arte e della poesia ».
Nonostante la difesa del Morello, l’insuccesso romano di Più che l'amore si rinnovò, sia pure meno clamoroso, nelle altre città italiane, tranne a Livorno dove la tragedia fu invece accolta trionfalmente.
Il poeta, dal canto suo, reagì come s’è detto: con la prefazione alla stampa della tragedia, importante non solo per il suo contenuto psicologico ed estetico nei confronti della sostanza del lavoro, ma anche per il suo tono aspramente polemico che le conferisce un valore documentario sui rapporti tra il poeta e i critici, rapporti che furono sempre assai riservati; anzi si può dire che il poeta non tenne mai conto della critica, la trascurò tanto laudatoria quanto ostile; ond’è che la sua insurrezione dopo la caduta, di Più che l'amore, rompendo l’olimpica serenità conservata in tutte le vicende tristi e liete, costituisce un episodio eccezionale della sua biografìa. Qui il poeta non lesina le sferzate; ma c’è anche, sfolgorante, la difesa della sua" opera, l’esaltazione della sua missione contro coloro che lo accusavano di corrompere il gusto e i costumi: « Perciò io mi considero maestro legittimo; e voglio essere e sono il maestro che per gli Italiani riassume nella sua dottrina le tradizioni e le aspirazioni del gran sangue ond’è nato: non un seduttore nè un corruttore, sì bene un infaticabile animatore che eccita gli spiriti non soltanto con le opere scritte ma con i giorni trascorsi leggermente nell’esercizio della più dura disciplina. Le figure della mia poesia insegnano la necessità dell’eroismo... Chè mai può dunque significare e valere il tentativo di rivolta contro la mia signoria spirituale, basso e vano come una sommossa di schiavi ubriachi? Qual mai potenza può oggi essere rivendicata contro la mia arte, se la mia arte ha celebrato e celebra nella più schietta e più energica lingua d’Italia le più superbe e le più sante potenze della vita? ».
Una scena della prima di Più che l’amore con Zacconi (Corrado Brando) e Ines Cristina (Maria Vesta).

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 07.03.34

Citazione: non firmato (Lorenzo Gigli), “La prima di "Più che l’amore",” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1498.